L'intervista

domenica 21 Maggio, 2023

Ugo Rossi: “Chiudo con la politica, ma sono preoccupato”

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L'ex governatore torna al suo lavoro ma teme "la deriva dell'autonomia da gazebo"

L’aveva detto, e ha mantenuto la promessa: «Non mi ricandido. Finita questa legislatura torno al mio lavoro». Ugo Rossi, che è stato assessore e poi governatore, lascerà definitivamente la politica tra pochi mesi.
Assessore, governatore. Ma è stato anche segretario delle Stelle Alpine.
«Prima di tutto questo sono stato un semplice militante, per dieci anni. Insomma, non è che sono arrivato e ho trovato la minestra già cotta».

Non è stato lei il primo a portare gli autonomisti al governo, e nemmeno il primo presidente della Provincia del Patt. Ma forse quello che ne ha portati di più in Consiglio provinciale e in giunta.
«Credo che sia con la mia segreteria il risultato più alto. Ma al di là di questo, e al netto dell’esperienza della giunta Andreotti, è con me che il Partito autonomista è passato definitivamente dall’essere forza di testimonianza a forza di governo, interprete e protagonista dell’autonomia».

Protagonista dentro il centrosinistra.
«Noi del centrosinistra siamo stati soci fondatori. A differenza di adesso che il Patt si accoda a un progetto di nazionalisti e populisti senza alcun protagonismo, senza la costruzione di un progetto».

È per questo che ha lasciato il Patt?
«Avvertivo che qualcosa stava cambiando. C’era la volontà di chiudere una stagione, di tornare a un modello meno impegnativo, soltanto rivendicativo, non più di proposta politica. Un autonomismo padano. Mi accodo a chi decide per me, purché mi lasci qualcosa. Il metodo Panizza, né più né meno, che va bene per tutte le stagioni».

Se fosse rimasto? Sarebbe finita così?
«La tendenza era quella, da tempo. E se fossi rimasto sarebbe stata una lotta interna che avrebbe fatto male a tutti. Sono uscito dal partito in punta di piedi, senza sbattere alcuna porta. E non ho nemmeno cercato contrapposizioni per accaparrarmi qualche militante e fondare altri partiti. Fine dell’esperienza, punto».

La tendenza era quella, ma da quanto? quando si è accorto che il Patt stava cambiando posizione?
«Ero ancora presidente quando avvertii il primo campanello di allarme. E fu una delusione molto forte. Avevo portato a Trento l’adunata degli Alpini, ero riuscito a imporre che nessuno parlasse di vittoria in una realtà che cent’anni prima era sul fronte opposto, che invece si parlasse di pace. Ero riuscito anche in un gesto simbolico: il presidente della Repubblica che depone l’alloro al monumento ai caduti italiani e a quello dei caduti austroungarici. Il Capo dello Stato affiancato da un alpino e da uno Schützen».

E cosa c’entra il suo ex partito?
«Nessuno nel mio partito capì davvero la forza di tutto questo. Erano tornati i vecchi schemi. Salvo poi vedere il consigliere provinciale Lorenzo Ossanna che sabato scorso era alla Festa dell’Euregio ad Ala e il giorno dopo all’adunata degli Alpini a Udine».

È uscito dal Patt e si è iscritto ad Azione. Perché?
«Credevo di poter riuscire a mettere al centro il pensiero autonomista dentro una forza politica nazionale. Mi sembrava che Carlo Calenda potesse capire la necessità di questo duplice tema, quello appunto nazionale ma anche territoriale. Poi ho visto il teatrino prima delle elezioni politiche, il dietrofront sulle alleanze, e ho capito che quel partito era in mano agli umori del suo capo. Nemmeno lì c’era futuro, e le vicende di questi giorni tra Calenda e Renzi mi confermano che avevo ragione».

Con Azione si sarebbe ricandidato?
«No, no. Questo voglio chiarirlo. Lasciato il Patt ho detto subito che non mi sarei ripresentato alle elezioni, né a Roma né a Trento. Quella scelta l’avevo già fatta. Torno al mio lavoro».

Anche con Casa Autonomia avrebbe avuto porte aperte.
«Tutti sanno che do loro una mano, ma senza impegni. E la loro uscita dal Patt era necessaria: ora sono loro gli interpreti della continuazione di una storia autonomista di amministrazione, di responsabilità di governo dell’autonomia».

Ma anche andando a destra il Patt mira al governo.
«Ma lì si accuccia ai piedi di un partito diretto da Salvini, populista e nazionalista. E quella coalizione imbarcherà anche Fratelli d’Italia».

Lei diceva che il suo Patt era nel centrosinistra. La coalizione che nel 2018 le ha dato il benservito. Cos’è successo davvero in quell’estate che le ha tolto la possibilità di ripresentarsi come candidato presidente del centrosinistra?
«I fatti hanno ampiamente dimostrato che quella è stata una pura follia. Che ahimè fu spinta da una parte del Pd, dai Verdi, da quelli che oggi si chiamano Campobase. In sostanza da un certo mondo della vecchia politica trentina che probabilmente si era accorta che Rossi rappresentava una discontinuità rispetto al passato. Non tanto suo valori, ma sul metodo».

Si spieghi meglio. Quale metodo?
«Parlo di quel totale controllo del territorio di Dellai, di Grisenti, e anche del Pd sulla città di Trento. Con me non era la stessa cosa: io sono un trentino di ritorno, non ho studiato qui, non ho amicizie particolari. Insomma, non si venga a raccontare che siccome si erano perse le elezioni politiche si doveva per forza cambiare il presidente. Senza contare che come assessore e come presidente ho preso una serie di decisioni che sono molto di sinistra».

Si riferisce al Reddito di Garanzia?
«Non solo. Ricordo l’accoglienza diffusa, il fondo sanitario integrativo territoriale, il fondo immobiliare per appartamenti a canone moderato, che questa giunta ha lasciato morire. Ricordo poi le tante azioni a sostengo dei cittadini più fragili in campo sanitario, la legge sulla famiglia che evita di definirla proprio per tutelare tutte le forme di famiglia».

A conti fatti, lei avrebbe molti più motivi per allontanarsi dalla sinistra che non i suoi ex compagni di partito. E anche in Consiglio provinciale ha preferito unirsi all’opposizione assieme ai partiti che l’hanno «spodestata». Perché?
«Sono stato eletto nelle fila del Patt con una campagna elettorale che sui manifesti aveva la gondola nel lago di Tovel, con slogan che dicevano che eravamo noi l’argine alla Lega e alla venetizzazione. Abbiamo preso il 13%, con tanti voti anche di sinistra. Io non mi sono spostato di una virgola. Altri hanno tradito, preferendo diventare i paggi proprio della Lega di cui dicevamo essere l’alternativa».

Da presidente della Provincia, qual è stata la pagina più bella. E quale la più brutta?
«Di mille immagini che mi passano per la testa scelgo quella che ancora mi emoziona. Gli occhi di quella bambina di Amatrice quando con il presidente Mattarella abbiamo inaugurato la scuola che il Trentino ha costruito in meno di un mese da quel tremendo terremoto. Pur nella tragedia, quegli occhi erano felici di poter guardare l’unico edificio in piedi, la sua scuola. Ecco, quella per me è stata un’emozione enorme, di orgoglio. In quel momento rappresentavo il Trentino, capace di fare felice una bambina che aveva perso tutto».

La pagina più brutta?
«Non saprei dire. Sono tante le pagine brutte che vive un amministratore. Più che altro qualche delusione, o il senso di essere bersaglio di tante cattiverie».

Da parte della politica?
«Arrivavano pacchi di minacce, anche a casa mia. Fogli con scritto che sapevano che avevo un figlio, cose così. A mia moglie nemmeno lo dicevo».

Per l’uccisione dell’orsa Daniza?
«Sì, ma non solo. Anche sull’accoglienza dei richiedenti asilo. Davanti a casa mia trovai un sacco con dentro cubetti di porfido e lo striscione: “Porta i profughi a casa tua”. Quella non è stata tanto una ferita personale, ma mi ha fatto male pensare che dei trentini potessero pensarla così».

L’opposizione, quella che ora è la maggioranza, non fu tenera con la sua giunta.
«Nemmeno la mia maggioranza me ne risparmiava una. Una continua critica, come se Rossi non avesse il diritto di occupare quel posto. Anche questo ha portato alla dissoluzione del centrosinistra».

Ma il centrodestra? L’opposizione fu dura.
«Più che dura irrispettosa. E Fugatti si è reso protagonista di episodi scorretti. Anche toccando miei parenti con accuse che poi sono risultate infondate, ma intanto i giornali fecero il titolone. E fu lo stesso Fugatti a chiudere più volte le mie dimissioni».

Anche sull’orso. Mentre lei non ha mai chiesto le dimissioni di Fugatti.
«Era sbagliato allora chiederle a me, sarebbe sbagliato ora chiederle a lui. Poi sulla questione dell’orso ho già detto che Fugatti non ha usato gli strumenti in suo possesso. Poteva, non ha voluto».

Per il resto, un giudizio sull’amministrazione Fugatti?
«In generale, ha rinunciato all’autonomia. Perché governare l’autonomia fa tremare i polsi, è una responsabilità enorme. Bisogna pensare, immaginare, dialogare, costruire. Questa è un’autonomia da gazebo».

È preoccupato?
«Un po’ sì. La rappresentazione plastica del decadimento generale è la deriva del Patt. Una deriva culturale dove l’autonomia non è più la sfida per il futuro ma la gestione del presente».

Questa è la sua ultima legislatura. Ma questo è un addio definitivo alla politica?
«Ritornerò al mio ruolo di dirigente in Trentino Trasporti. Una società pubblica, quindi non è nemmeno giusto che continui a occuparmi di politica in modo attivo. Se qualcuno vorrà chiedermi cosa penso io ci sono, ma non è più il mio tempo».

E alle prossime elezioni? Darà una mano?
«Do una mano a Casa Autonomia, spero che qualche giovane faccia un bel risultato. Può sembrare una banalità, ma se la politica non riparte dai giovani, da una nuova generazione, non riparte più».