L'editoriale

lunedì 17 Aprile, 2023

Tra vittime e carnefici

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Tra social e rappresentazioni sbagliate quando si parla di orso la possibilità di riflettere sulla complessità della conservazione del Progetto Life Ursus, concluso nel 2004, è pressoché impossibile

Anni di letteratura e studi sociologici hanno argomentato al millimetro peso e significato dei fenomeni di vittimizzazione. Conosciamo la facilità con cui il pubblico, ben prima che i microfoni social si accedessero, si addentra nella stereotipata narrazione degli eventi oscillando nei lembi opposti della sua rappresentazione sociale: vittime e carnefici, buoni e cattivi. Esistono vittime per definizione, colpevoli per definizione. E con tale ritmo incalzato da una morale collettiva, i profili di mezzo disturbano un racconto stilizzato, spesso veicolato dai media che ne annacquano la complessità affidandosi all’iperbole. Accade poi che a un comportamento noto, s’intersechino altri due fenomeni: analfabetismo digitale, specie per le generazioni «di mezzo», e ancestrali paure (o idolatrie) legate all’orso. L’esito è un rumore di fondo talmente intenso che quasi si fatica a distinguere le voci, gli argomenti. Resta il dire a perdere. Poche soluzioni, tante sentenze che sconfessano le più basilari teorie freudiane sulla separazione tripartita fra conscio, preconscio e inconscio: esiste un flusso verbale che straripa nel nonsense, nell’eccesso e nell’offesa.

Anche perché, alla fine, malgrado la molteplicità di Tweet e post la media dei commenti che riempiono le pagine social si riduce a poco: «L’orso fa l’orso, dispiace per il ragazzo ma alla fine se l’è cercata». Sentenze che i tribunali di Facebook emettono ogni istante lasciando non poca amarezza in chi legge.

Lo si direbbe mai a una madre, de visu? Lo si direbbe mai a una sorella, de visu? Lo si direbbe mai a un padre, de visu? Lo si direbbe mai a una fidanzata, de visu? La risposta è no. Pudore e rispetto dell’Altro porterebbero a un controllo verbale, a maggiore cura. Ma questo aspetto ormai patologico dell’incapacità di governare il discorso pubblico virtuale è malattia che affligge soprattutto chi non ha appreso rudimentali regole del comportamento digitale (una «netiquette», cioè una etichetta valida per i social network). Chi è nato nell’interscambio continuo fra virtuale e reale mostra viceversa meno incapacità di smarrirsi, riconosce l’esistenza di una congiunzione fra uno schermo e una esistenza violata, che può essere violata ulteriormente da parole che ne profanano la memoria. Quella di Andrea Papi oggi. Ma anche quella di centinaia di vittime in mare «che se stavano a casa loro questo non sarebbe successo». Perché un giovane, bello, forte e nel fiore degli anni, è meno indifeso agli occhi dei più. Quindi un po’ meno vittima.

Ed è qui che si aggiunge un altro fenomeno. La facilità a solidarizzare con immaginifiche rappresentazioni della vittima, che per essere tale fino in fondo deve corrispondere a un profilo accettato socialmente. Accade troppo spesso quando si parla di violenza di genere, quando a un ammazzamento o a uno stupro si aggiunge un pezzo non richiesto, non pertinente e incontinente. Quanta poca empatia hanno scatenato le vittime degli abusi nell’attico di lusso di Alberto Genovese? Giovani modelle che partecipano a una festa se la sono cercata, nella mente dei più.

L’insieme di tutto ciò provoca prima di tutto fatica, molta, nei familiari delle vittime. Laura Papi ha spiegato con dolore che non è escluso di procedere con querela per diffamazione nei confronti di chi in questi giorni travalica lo steccato. Una scelta più che comprensibile e forse necessaria. Un tempo, e relativamente ad altri contesti, il sociologo Marshall McLuhan suggeriva ai media di staccare la spina. Ora non è più possibile perché la disintermediazione totale dei social network allaga ogni intenzione di ricomposizione e rappresentazione. Allora sì, dinnanzi all’abnormità è più che comprensibile agire. Confidando che le nuove generazioni digitali consegnino a futura memoria questa fase di mezzo in cui la parola scritta in un commento sia solo flutto, raramente concetto.

Quando si parla di orso la possibilità di riflettere sulla complessità della conservazione del Progetto Life Ursus, concluso nel 2004, è pressoché impossibile. La polarizzazione estrema che genera ogni decisione, su tutte le ordinanze di abbattimento di Jj4 e di altri due esemplari (Mj5 e M62), si sostanzia in un coro da stadio che genera solo immobilismo. Una stasi che, ahinoi, migra anche nella fitta antologia di procedimenti aperti, chiusi, in fase d’apertura. La sospensiva del Tar di ieri ne è parzialmente la rappresentazione plastica. Nel mentre, a osservare senza ingaggiare né rappresaglie contro i plantigradi né l’idolatria priva di criticità, c’è oggi una famiglia. Che chiede giustizia e merita quantomeno rispetto di un dolore autentico, affatto virtuale. Un monito che tutti, compresa la stampa e i commentatori che con agilità affrontano temi profondi spersonalizzandoli, dovrebbero rammentare.