L'intervista
domenica 29 Settembre, 2024
di Lorenzo Fabiano
Come lui, nessuno mai. Per conferma, basta andare a scovarsi vecchi filmati e vedere Tone Valeruz salire in vetta e scendere con gli sci danzando come un camoscio giù da nevai e ghiaioni, alla faccia della vertigine. Di giorno, ma anche di notte al chiaro di luna: «Per carità, quando praticavo lo sci estremo mica ero l’unico; c’era Heini Holzer, da Merano, che era fortissimo e perse la vita scendendo dalla parete nord del Piz Roseg in Svizzera; c’era il francese Sylvain Saudan, ma diciamo che forse l’unico vero sciatore sulle pareti ero io: dove andavano gli alpinisti io andavo sempre con sci e scarponi da competizione. Allora era una cosa nuova», racconta lui, settantatré anni, pioniere e leggenda dello sci estremo, o ripido qualsivoglia, tra gli anni ’70 e ’90 con in dote 130 prime discese su Dolomiti, Alpi e, giusto per non farsi mancar nulla, Ande e Himalaya. Figura mitologica, simbolo di un’epoca, e di un approccio alla montagna, che non esiste più.
Tone, mi tolga una curiosità: ma come le è balzato alla mente di fare lo sci estremo?
«Diciamo che parte tutto da una certa predisposizione, poi capisci quali sono le cose fattibili, scegli gli obiettivi, ti alleni e li porti a termine. Questa è la regola del gioco».
Detta così, sembra una passeggiata. E la prima discesa estrema quando l’ha fatta?
«Nel 1969, parete nord della Marmolada. È la montagna che mi ha forgiato, la prima volta che ci son salito avevo sette anni, nel 1958, non sapevo neanche dove andavo, in realtà salivo e salivo fino a che mi sono ritrovato in cima».
Ci deve aver preso gusto, se sulla Marmolada ci è stato altre 899 volte…
«Vedevo le pareti innevate, io sono nato con gli sci ai piedi. Nel 1969 ero appena entrato nell’Arma dei Carabinieri, a Selva di Valgardena, ogni tanto me la filavo sulla Marmolada; a quei tempi non ero neppure tanto convinto di praticare lo sci estremo, poi ho capito che se avessi insistito avrei potuto fare le cose che poi ho fatto».
Ci va ancora lassù in vetta?
«No, perché lassù c’è una persona che con la sua permanenza la vetta la inquina. Una persona che con la montagna non c’entra nulla. Lo scriva, mi raccomando».
Nome e cognome, prego.
«Non serve che lo faccia, tanto si capisce benissimo di chi sto parlando (che ce l’abbia con Carlo Budel, custode della Capanna Penia, è sin troppo lampante, ndr). Tipico fenomeno social, espressione di questi tempi».
Marmolada, il ghiacciaio ferito.
«Un ghiacciaio in via di estinzione, che probabilmente tra 10-15 anni non ci sarà più».
Il ritiro dei ghiacciai è un chiaro sintomo del cambiamento climatico; eppure, c’è ancora chi nega l’evidenza. Lei che ne pensa?
«La realtà bisogna guardarla bene in faccia, il resto son barzellette. E la realtà è che con l’innalzamento delle temperature in estate lo zero termico è a 4.500 metri. In quelle condizioni il ghiaccio cola anche di notte».
Due anni fa la tragedia sulla Marmolada: si poteva prevenire secondo lei?
«Sì e no. Si poteva monitorare giorno e notte in modo permanente, certo, ma poi chi se la prende la responsabilità di dire che oggi puoi salire e domani no?».
Cosa richiede lo sci estremo?
«In un quoziente così alto di rischio, si tratta di scendere senza commettere errori. La mente fa il 60% della prestazione. Lo sci estremo pone dei limiti, nel senso che oltre una certa pendenza non puoi andare perché gli sci si staccano dal pendio e perdi aderenza. Nell’alpinismo cerchi di passare sempre a cose più difficili, in arrampicata magari fai il sesto grado, ti alleni e arrivi poi fino al decimo; ecco, nello sci estremo questo non è possibile».
Spregiudicatezza?
«Il 70% è coscienza, il resto spregiudicatezza. Incidenti ne ho avuti, ma quando mi son fatto male sul serio è perché ho usato più il sedere della testa, tipo cadere in bicicletta (ride, ndr). Quando fai una discesa estrema usi esclusivamente la testa».
Oggi si fa freeride, più che sci estremo.
«Le cose vanno distinte. Lo sci estremo non lo fa praticamente più nessuno. Qualcosa si muove nell’alpinismo, ma nello sci è calma piatta».
Nel 1973, la sua prima discesa dal Gran Vernel.
«In realtà, la prima l’ho fatta il 10 ottobre del 1972, quella più difficile dal versante nord della punta Cornates; nel 1973 sono sceso dalla vetta nord del Vernel».
Quarant’anni dopo, nel 1997, l’ha rifatta. Perché?
«Per il gusto di rifarla. E la trovai in pessime condizioni rispetto a prima. Mentalmente lo sci estremo lo puoi fare in teoria anche a ottant’anni, ma fisicamente no perché bisogna essere dei felini. Puoi scendere in derapata, ma per fare le curve devi essere un gatto».
La discesa che le ha dato più soddisfazione?
«Due. La prima è la parete nord del Lyskamm che è parte della catena del Monte Rosa: 1000 metri di parete con più o meno 60 ° di pendenza media. Sono venuto giù in tre minuti, ho fatto otto curve in tutto. L’altra è la parete nordest del Sassolungo che sta a ridosso del rifugio Comici in Valgardena: l’ho valutata e l’ho studiata per dieci anni, poi un giorno mi son svegliato e da casa sono andato in macchina su al Passo Sella. Faceva ancora buio, sono salito su con gli sci alla forcella, poi sono venuto giù; sono risalito per la via normale e sono sceso giù. Mi ero portato una corda, perché sarebbe stato un suicidio altrimenti, ma l’ho usata solo per 15 metri in tutta la discesa. È stato qualcosa di incredibile. Ci penso e ne sono tuttora meravigliato».
Oggi Tone Valeruz che fa nella vita?
«Nulla, vivo la mia vita. Sono nonno di due nipoti, ma guardi che i nipoti servono solo a ricordarti che sei vecchio, capisce? (altra risata, ndr)?».
Un consiglio ai giovani che vorrebbero seguire le sue orme ed emularla?
«Vivere quasi esclusivamente di questo. Se vuoi emergere, devi avere le idee chiare, porti degli obiettivi che possano essere di pubblico interesse e rilevanti anche dal punto di vista giornalistico. Purtroppo, a parte pochissimi giovani, vedo tanta fotografia, ma poche idee e altrettanta poca sostanza».
E lei qualche discesa delle sue se la fa ancora?
«Se le condizioni sono buone, certo che sì. Quest’anno in primavera ho fatto cose interessanti. Non parliamo più di sci estremo, ma i canaloni del Pordoi me li faccio ancora».
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