Il ricordo
lunedì 7 Luglio, 2025
Due anni senza Stefano Bertoldi: «Ci ha insegnato a realizzare sempre i desideri di chi ha una malattia in fase terminale»
di Camilla Endrici*
Camilla Endrici ricorda il direttore dell’hospice Cima Verde. «Se ne è andato presto, ma con fiducia. Disse: “So di essere in buone mani””»

Sono passati quasi due anni da quando Stefano Bertoldi, grande riferimento del mondo del sociale in Trentino, ci ha lasciato. Eppure, l’onda lunga delle sue azioni, dei suoi pensieri, semplicemente del suo modo di essere, riverbera ancora. «L’ho conosciuto una decina di anni al calcetto», racconta oggi un caro amico, che ricorda: «Lui aveva questa capacità di unire, di amalgamare le persone, anche se molto diverse tra loro».
Dall’avvocato all’operaio, ci sono tutti nella squadra amatoriale che Stefano ha messo in piedi, uniti in una diversità che aggrega, come solo lui aveva la capacità di fare. Quando gli chiedo chi è oggi a tenere unita la squadra, lui risponde con un sorriso: «Stefano ovviamente». Stefano Bertoldi c’è ancora, e non per una retorica spoglia, ma perché davvero con la sua personalità ha nutrito, unito e animato molte realtà formali e informali del Trentino e non solo. Educatore professionale, Bertoldi ha mosso i suoi primi passi nel lavoro sociale nel Servizio di Alcologia, per poi passare all’auto mutuo aiuto ricoprendo la carica di direttore di Ama e concludere la sua esperienza professionale e umana come direttore dell’hospice Cima Verde, di cui è stato uno dei fondatori. Se n’è andato giovane, a 59 anni, scegliendo di raccontare la sua storia nel libro So di essere in mani buone (Erickson, 2024) che abbiamo scritto insieme. I suoi amici oggi sono riuniti in un gruppo, i Be.St (dove Be.st sta non solo per «migliori» ma soprattutto identifica le sillabe iniziali di Bertoldi Stefano) Friends, che organizza momenti conviviali di vario tipo per finanziare le attività che Stefano aveva a cuore: l’hospice e Ama, in primis. L’onda lunga riverbera ancora. Stefano aveva una straordinaria capacità di fare rete, tessere relazioni nel senso più alto e nobile del termine, nulla che avesse a che fare con l’opportunismo. «Semplicemente» sapeva valorizzare il meglio di ciascuno in funzione di un progetto di squadra.
Uomo carismatico ma mite, solare e gregario: questo era lui. Ma quante persone con queste caratteristiche ci sono al mondo? Certo non è la normalità, ma tante. Eppure, Stefano Bertoldi aveva qualcosa in più, che credo lo rendesse speciale. Qualche giorno fa ho letto una riflessione del filosofo americano Mark Rowlands, che sostiene che una vita acquista un senso quando si fa ciò che si è. Una sorta di coerenza, credo, o di fedeltà al proprio daimon, volendo parlare in termini classici. Stefano era coerente: lo fu quando al proprio matrimonio, celebrato nel periodo in cui lavorava nell’alcologia, non volle alcool per permettere anche agli amici che conosceva sul lavoro potessero partecipare. Lo è stato quando, scoperto di avere una malattia non guaribile, ha deciso di trascorrere in Hospice l’ultima parte della sua vita. Ci sono state sicuramente più ragioni di questa scelta, ma non credo di sbagliare dicendo che la prima fu mostrare che credeva davvero nel progetto che tanto aveva portato avanti.
E credo che sia stata proprio da questa posizione di coerenza, o identità, che Stefano ha sentito il desiderio di raccontare la sua esperienza. Non con il bisogno di rendere pubblica una storia privata, ma con l’autentico spirito di servizio che lo animava e che ha preso forma nella testimonianza.
Quando mi ha chiamato per parlarmi del suo progetto di scrittura era circa metà agosto del 2023. Allora non potevamo sapere che poco più di un mese dopo, il 23 settembre, sarebbe morto. Stefano era già paziente dell’Hospice, oltre che direttore. Tra le cose che ci ha insegnato col suo agire, c’è l’importanza di provare a realizzare gli ultimi desideri di una persona affetta da una malattia in fase terminale; a Cima Verde si sono celebrati matrimoni ed è alla visionarietà di Stefano che si deve il progetto di portare in montagna pazienti sulla jolette, una speciale sedia a rotelle-portantina per i sentieri sterrati. Quando Stefano mi ha comunicato col suo indimenticabile e contagioso entusiasmo di voler scrivere un libro e mi ha chiesto di aiutarlo, non ci ho pensato un secondo e ho detto sì. Ora toccava a noi realizzare gli ultimi sogni di Stefano. Ho subito intuito che la sua non doveva essere una storia di malattia come ce ne sono tante, ma doveva e poteva essere la storia di un cambio di prospettiva: di chi è direttore di un luogo chiamato Casa Hospice che all’improvviso deve salire al piano di sopra, e di quella casa diventare inquilino. In quanti modi avrebbe potuto entrare in quella casa? Infiniti.
Stefano ci è entrato con alcune delle sue caratteristiche più belle: con coraggio, umiltà, creatività e coerenza. È riuscito a trasformare la malattia non guaribile in un’occasione, di nuovo, per vivere in prima persona ciò in cui credeva. E a misurare sulla sua pelle se la struttura che aveva diretto con passione per sei anni davvero rispondeva alle necessità e ai bisogni di un paziente. Tanto è vero che anche da lì, dalla sua posizione di paziente, è riuscito a immaginare alcune idee per il futuro. Futuro: metterei anche questa parola in un immaginario vocabolario per raccontare Stefano, che non a caso nelle liste di Futura era stato eletto nel 2020, salvo poi non ricoprire la carica di consigliere comunale per ragioni di incompatibilità col suo ruolo professionale.
Lui ha saputo guardare al futuro anche quando la sua prospettiva era un orizzonte stretto. Guardando a come Cima Verde avrebbe potuto migliorare, Stefano aveva le idee chiare: innanzitutto favorendo la possibilità per gli ospiti di personalizzare la propria stanza, per renderla ancora più familiare. Poi attraverso un sempre maggior sostegno alle famiglie: lo sapeva fin dall’inizio del suo lavoro in Alcoologia, quanto ogni persona sia parte di un contesto che va coinvolto nel processo di cura. Lo aveva ben chiaro quando ha inventato il “Tè delle tre” in Hospice, un momento di condivisione tra parenti e caregiver, mediato da lui e dalla psicologa; e lo aveva in mente quando immaginava, dal suo letto della stanza numero 8, un servizio di supporto per i familiari in lutto fatto da altri familiari che lo hanno già attraversato. Stefano aveva in mente anche una sorta di “sportello legale”, un servizio di aiuto gratuito per gli ospiti, per la stesura del testamento e la gestione di questioni burocratiche. Anche in questa idea, definita «visionaria» dal dottor Gino Gobber, direttore dell’Unità di Cure Palliative dell’Azienda per i Servizi Sanitari di Trento e all’epoca presidente della Società Italiana Cure Palliative, troviamo lo Stefano che sa vedere oltre la propria situazione personale per declinarla in un bene comune.
Molte persone si sono chieste da dove traesse la sua forza, che non esiterei a chiamare serenità, in un momento così difficile della vita. Un giorno, in una delle chiacchierate da cui è nato il nostro libro, gli ho chiesto se è quanto c’entrasse Dio. Stefano era cattolico, ma mi fece capire che era un po’ in rotta con le gerarchie del clero. La sua risposta fu quella che poi abbiamo scelto come titolo del nostro lavoro: «È perché so di essere in mani buone». Questa enorme fiducia nel prossimo, non un prossimo qualunque ma un prossimo col quale ci si è impegnati a coltivare e costruire un rapporto profondo, è quella che sorregge, come le braccia incrociate che da piccoli ci permettevano di fare il seggiolino. Ed è da lì, da quel sostegno, che Stefano ci ha insegnato si può spiccare il volo. Con leggerezza.
*co-autrice del libro «So di essere in buone mani» (Erickson, 2024)
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