l'intervista
mercoledì 2 Luglio, 2025
Maurizio Zulian e il primo studio veterinario per piccoli animali del Trentino: «Cani e gatti? In passato ignorati ora trattati come bebè»
di Anna Maria Eccli
Il medico roveretano è anche appassionato e riconosciuto egittologo: «L’animale d’affezione è solo per le persone sole? Una stupidaggine»

Settembre 1976: al Brione viene aperto il primo ambulatorio veterinario per piccoli animali del Trentino. Quasi mezzo secolo fa, i medici Maurizio Zulian e Luigi Rigo videro arrivare i primi clienti; qualcuno nascondeva il gatto sotto alla giacca per evitare l’ironia greve di chi al professionista sarebbe ricorso solo se ad ammalarsi fossero stati i cosiddetti “animali da reddito”, ovvero le proprie tasche. Maurizio Zulian, classe 1951, laurea in Medicina Veterinaria all’Università di Bologna, specialità in Clinica per piccoli animali a Milano: «Sono ricco in anni – scherza – così dicevano gli antichi Egizi. Nella loro cultura la parola “vecchio” non esisteva. Sapevano che avere un anziano in casa era una ricchezza». Vita binaria, divisa con stessa dedizione tra camice e sahariana: il medico Zulian è ormai riconosciuto anche in ambito archeologico, con il benestare di una grande egittologa scomparsa nel 2020, Edda Bresciani. Sua è la prefazione de «Nella terza di Pakhet. Carnet de voyage nelle province centrali dell’Alto Egitto», tomo analitico di 600 pagine che Zulian ha composto con tutti i crismi scientifici, allegando riferimenti topografici e migliaia di fotografie. Frequentatore assiduo dei siti più nascosti e vietati al circuito turistico, il medico ha stretto amicizie locali importanti per avvicinare mete nascoste; esperienza lunga, complessa, costosa, resa possibile dall’enorme passione che persino i sovrintendenti del Paese nordafricano gli hanno riconosciuto. La sua è stata una passione totalizzante: «Amo il deserto, infinito più del mare – dice – abitato dal rumore del vento; amo il viaggio in se stessi che vi si conduce, per trovare le ragioni dell’esistenza. Ma aborro l’antropizzazione selvaggia del turismo odierno, che corrompe e trasforma l’Egitto in una Disneyland insulsa». Conservatore Onorario del Museo Civico, cui ha donato i materiali frutto di quattro decenni di ricerca e studio, da 2 anni è presidente della Società Museo Civico. Lo incontriamo in mise montmartrese fine ‘800, ennesimo tributo a quell’indole originale con cui ha affrontato anche le asperità della professione. Non si è bravi medici se non si è anche creativi.
Dottor Zulian, da due anni è senza ambulatorio, in panciolle ora?
«Per niente, amo studiare, scrivo, mi curo della Società Museo Civico e collaboro con una collega in un ambulatorio veterinario di Mori. Il camice non l’ho proprio appeso al chiodo e nemmeno la mia passione per l’Egitto, sono appena tornato dall’ultimo viaggio».
Cos’è esattamente la “Società Museo Civico” di cui è presidente?
«Un’istituzione antica, di origine privata, di cui la città deve andare orgogliosa, nata nel 1851 da intellettuali illuminati, uomini dalle menti aperte che pensavano al futuro: Fortunato Zeni, Paolo Orsi, Cesare Malfatti, Giovanni De Cobelli, Antonio Pischel… Volevano tutelare il patrimonio museale cittadino, che altrimenti sarebbe finito al Ferdinandeum. Nata per “far crescere il decoro e il lustro della città e non lasciare vane le offerte di alcuni bene intenzionati cittadini ed esteri”, è stata la Società a fondare il Museo. Nel 1983 ha donato tutto il suo patrimonio al Comune che, nel 2013, ha istituito la Fondazione. La Società Museo Civico è la radice, parte propositiva, ragione, entità autorevole con la divulgazione nel proprio Dna. Io sono onorato d’esserne presidente. Stiamo pensando alla ristampa del testo curato da Fabrizio Rasera, “Le età del Museo”, un vero capolavoro».
Lei è alense?
«Sono nato in provincia di Modena; mio padre, Luigi Gastone, era funzionario della grande cartiera che dava lavoro a tutta la famiglia, mamma Norina e nonni compresi. Ad Ala mi hanno portato quando avevo 3 mesi perché lì hanno aperto una loro cartiera che produceva cartoni. I depositi cartacei erano il mio mondo; tra le bobine trovavo di tutto, moltissimi libri nuovi che la tipografia Mondadori di Cles aveva destinato al macero. Ricordo l’arrivo dei controllori che mandava per verificare si procedesse in tale senso e io, a 10 anni, leggevo a sbafo».
E l’interesse per la medicina veterinaria?
«È nata con me; ho sempre avuto cani, doberman, terranova… da bimbo mi addormentavo con la testa sopra la pancia del mio setter Dir, grande compagno».
In mezzo secolo di storia veterinaria a Rovereto cosa è cambiato?
«Sono riconoscente a questa città, ci ha permesso di affermarci professionalmente. Abbiamo assistito a cambiamenti inimmaginabili grazie all’evoluzione delle persone, grazie alla scuola. Abbiamo visto nascere la cultura del rispetto e dell’amore per l’animale da compagnia. Le generazioni sono cambiate; nel ‘76 erano pochi gli anziani che portavano un micio in ambulatorio, chi lo faceva lo teneva nascosto sotto alla giacca perché si vergognava. Abbiamo visto gli enormi progressi fatti dalla medicina veterinaria, campo in cui ormai si fa quasi tutto, come in quello umano».
Cosa, invece, non è cambiato per nulla?
«I luoghi comuni: ve ne sono troppi. Si pensa che l’animale d’affezione sia per le persone sole. È una stupidaggine. Ho visto che la solitudine peggiore la si trova all’interno delle famiglie. Qui siamo passati da un estremo all’altro; se ieri gli animali da compagnia non erano considerati, oggi vediamo attaccamenti morbosi, specialmente da parte dei giovani. Le situazioni di solitudine e di insicurezza vissute in famiglia sono tante e spesso i giovani sono impreparati alla sofferenza; antropomorfizzano l’animale che, però, non è un bambino, è un soggetto con un proprio comportamento che va rispettato».
Amare un animale espone anche a sofferenza, checchè ne pensasse un papa che, piuttosto curiosamente, aveva scelto di chiamarsi Francesco.
«Sì, amare un animale porta ad anticipare anche le esperienze negative della vita, dolore e morte. Non a caso il cane viene considerato un indicatore biologico delle malattie: vivendo meno tempo rispetto agli umani le patologie possibili vi si concentrano. È campo di studio per l’oncogenesi. Avere un cane, o qualsiasi altro animale, impone coraggio. Ricorrere all’eutanasia per interrompere la sofferenza, per esempio, non è facile per il proprietario, ma nemmeno per il veterinario».
Personalmente nutre qualche rimpianto?
«Avere rinunciato alla carriera universitaria: appena laureato avevo vinto anche una borsa di studio. Ma mi stufai di fare il portaborse senza guadagno. Però mi è sempre dispiaciuto rinunciare alla ricerca. Poi, ho imparato a stare bene con me stesso. Andare in Egitto mi ha molto aiutato».
L’Egitto, già, una folgorazione.
«Avevo una cultura scolastica, fuorviante, che fa pensare a una civiltà dei morti. Voltaire direbbe che abbiamo confuso la causa con l’accidente: gli antichi Egiziani amavano la vita ed esorcizzavano la morte. Da quel bambino curioso che ero, e che mi è rimasto dentro, io volevo saperne di più. Ho incominciato a studiare, a frequentare lezioni all’Università di Bologna del professor Sergio Pernigotti, la biblioteca del Museo Egizio di Torino, ho conosciuto la professoressa Edda Bresciani e per 40 anni sono andato in Egitto da solo due o tre volte all’anno. Ho scoperto una società gioiosa, nella quale gli animali erano un’epifania della divinità. Hanno prodotto una letteratura meravigliosa, testi sapienziali, inni… ebbero intuizioni sociali rivoluzionarie. Che fossero gli schiavi a costruire le piramidi se lo sono inventato i Romani, i vincitori. Quel lavoro era un modo per redistribuire il reddito in un Paese che per 4 mesi all’anno era invaso dalle acque; era l’Iri dell’epoca. Le religioni giudaico-cristiane hanno fatto man bassa di quella cultura.
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