l'intervista
martedì 3 Giugno, 2025
Referendum dell’8 e 9 giugno, l’attivista Insaf Dimassi: «Avevo 9 mesi quando sono arrivata in Italia, ora faccio il dottorato e non ho ancora la cittadinanza»
di Sara Alouani
L'autrice del saggio «Dialoghi sulla cittadinanza»: «Dimezzare i tempi è fondamentali, in Italia si diventa adulti da stranieri»

«Fare politica vuol dire occuparsi delle minoranze, delle persone più fragili e fare in modo che le diseguaglianze siano ridotte il più possibile». Cita l’articolo 13 della Costituzione Insaf Dimassi, 28 anni (ma in Italia da quando ha 9 mesi), nel suo appello agli italiani e alle italiane quando le si chiede per quale motivo bisognerebbe votare «sì» anche al quesito sulla cittadinanza i prossimi 8 e 9 giugno. L’attivista italo-tunisina e autrice del saggio «Dialoghi sul diritto di cittadinanza» ci dedica qualche minuto del suo tempo mentre è impegnata nella campagna referendaria da nord a sud dello Stivale per spiegare nel modo più semplificato possibile l’importanza del quesito sulla cittadinanza che abrogherebbe l’attuale legge del 1992. Nonostante sia una materia che non tocca direttamente chi si recherà alle urne sarà uno scoglio fondamentale, un punto di non ritorno, poiché ci metterà di fronte a una riflessione più complessa ed unitaria: decidere se i nostri colleghi, i compagni di classe dei nostri figli, i nostri vicini di casa hanno «diritto di poter essere parte al 100% del nostro Paese».
I prossimi 8-9 giugno si voterà anche per un’abrogazione della legge sulla cittadinanza che porta da 10 a 5 gli anni di residenza continuativa per richiederla. Perché è un passo importante?
«Ci sono due cose fondamentali che farebbe questo referendum. Intanto andare a dimezzare i tempi della residenza continuativa, garantendo quindi anche minore incertezza per garantire proprio il requisito della continuità, perché se manca anche un solo giorno il conteggio ricomincia da capo. Questo permette anche di diventare cittadino italiano in tempi più ragionevoli, perché bisogna sempre tenere conto dei tempi della burocrazia che sono estremamente lunghi».
Di quanto parliamo?
«Almeno 3 o 4 anni di attesa (oltre ai 10 di residenza, ndr) affinché la domanda venga analizzata e processata. In totale siamo sui 13-14 anni per diventare cittadino. Portando la residenza a 5, in totale sarebbero 8-9 anni per completare l’iter».
Questa variazione gioverebbe indirettamente anche ai giovani, minori figli di stranieri…
«Esattamente. La legge attuale prevede all’articolo 14 che se un adulto straniero diventa cittadino può trasmettere la cittadinanza soltanto ai figli minorenni. Questo implica che se un adulto deve attendere minimo 14 anni rischia di diventare cittadino italiano quando alcuni dei suoi figli sono già maggiorenni. Ed è poi quello che è successo a me: quando mio padre ha ottenuto la cittadinanza io ero maggiorenne da 20 giorni e, quindi, non me l’ha potuta trasmettere. Se i tempi fossero stati quelli richiesti dal referendum che stiamo provando a vincere in questo momento, io oggi sarei italiana».
E non lo è ancora?
«No. Ho scelto di studiare sacrificando la cittadinanza. Con il dottorato di ricerca dovrei riuscire a poterla richiedere fra tre anni, quando avrò raggiunto anche il requisito del reddito».
Quali sono i disagi e i limiti per chi vive in Italia e non ha la cittadinanza?
«Sono tantissimi e variano a seconda delle persone, della tipologia di permesso che si ha in mano. Per quanto mi riguarda, direi il fatto di non poter votare, di non avere diritti politici né attivi né passivi soprattutto in una Repubblica parlamentare come la nostra in cui l’espressione della democrazia è proprio il voto dei nostri rappresentanti. Non poter esercitare il mio dovere da cittadina e soprattutto essere rappresentata anche nelle istituzioni da persone che hanno una storia simile alla mia è una cosa che mi pesa tanto».
Più in generale, quali sono i problemi principali nell’avere un permesso di soggiorno?
«Tendenzialmente, nella maggior parte dei casi, il permesso di soggiorno è legato al lavoro; quindi, se tu non hai il lavoro, non hai il permesso di soggiorno e non sei regolare sul territorio italiano. Questo porta moltissime persone a dover accettare condizioni lavorative estremamente precarie, di sfruttamento, essere pagate 3, 4, 5 euro l’ora e il settore dell’agricoltura, della cura e della logistica ne sono testimoni. Questo non fa male soltanto alla popolazione che ha origini straniere ma in generale a tutto il sistema e a tutta la popolazione perché la concorrenza diventa sleale in questo senso, il costo della manodopera si abbassa e chiaramente questo va ad inficiare anche le retribuzioni di italiani con cittadinanza “doc” perché se puoi assumere una persona che viene pagata 3 euro l’ora, il costo del lavoro si abbassa».
Crede manchi rappresentanza?
«Certo. Non sto dicendo che gli alleati e le persone che non hanno un background migratorio non vogliano sostenere le nostre istanze, ma è proprio una questione fisiologica, chi non ha vissuto sulla propria pelle certe condizioni non ha accesso a determinate conoscenze a determinate problematiche che toccano determinati background. Quando noi diciamo che vogliamo più donne nelle istituzioni non è perché le donne sono più brave degli uomini ma perché una donna è in grado di comprendere le necessità delle donne e rappresentarle alle istanze. Il punto è lo stesso».
È d’accordo quando si dice che la cittadinanza va meritata?
«Cosa significa meritarla? Più che essere regolari sul territorio, pagare tutte le tasse, dimostrare di non avere precedenti penali, dimostrare di contribuire allo sviluppo economico del Paese (e la popolazione emigrante regolare lo fa per il 95 del Pil), più di dimostrare di conoscere la lingua italiana, cosa deve fare una persona per meritarsi la cittadinanza? O meglio, cosa hanno fatto queste persone che sono nate cittadine per meritarsi la cittadinanza? Direi che i requisiti che ci sono adesso sono anche un po’ troppo stringenti, quindi, parlare di merito quando si parla di diritti è la più grande trappola in cui si possa cadere. Anzi, ci vorrebbe una nuova legge sulla cittadinanza che possa garantire a chi nasce o cresce sul territorio di diventare italiano senza dover dimostrare di avere un reddito, perché questo vuol dire che chi ha i soldi può accedere e chi non ce li ha non può. È una guerra tra poveri».
Secondo lei, se dovesse passare questo referendum, ci sarebbe ancora spazio per parlare di ius scholae o ius soli?
«Sono convinta che il secondo grande effetto, se dovesse vincere il “Sì”, è proprio quello di mandare un messaggio alle istituzioni fortissimo e cioè che la gente che può votare, gli italiani con cittadinanza, hanno scelto di allargare e di rendere più leggero l’accesso ai propri concittadini non riconosciuti. Sono anni (già dai primi 2000) che si depositano iniziative di promozione popolare per poter cambiare la legge sulla cittadinanza. Nel 2015 lo ius culturae non è passato al Senato poi nel 2017 il dibattito si è arenato nuovamente. Vedendo che i partiti, i governi non hanno recepito le nostre lotte, le nostre richieste abbiamo dovuto adottare l’unico strumento di democrazia diretta che esiste, che è quello del referendum. Questo è un modo per dire “non ci avete lasciato altra scelta però ora che i cittadini hanno votato e hanno votato positivamente non vi potete più tirare indietro, sono gli italiani che vi dicono che vogliamo che mettiate mano alla legge sulla cittadinanza”».
Sui referendum i partiti di governo hanno messo in atto una vera e propria campagna di astensione, invitando la cittadinanza a non recarsi alle urne. Che ne pensa di questa strategia che mira, chiaramente, al non raggiungimento del quorum?
«Credo che sia assolutamente indecente che la seconda carica dello Stato e i nostri ministri si siano pronunciati per l’astensionismo intanto perché sputano sulla Costituzione, sui diritti acquisiti che sono stati acquisiti con sofferenze, con lotta contro sistemi dittatoriali. Ricordiamoci che le donne non potevano votare e in questo modo le cariche dello Stato stanno letteralmente denigrando e sminuendo la nostra democrazia. Poi significa che non hanno argomenti contro altrimenti avrebbero costituito un comitato del “no”, si sarebbero pronunciati sulle loro perplessità nei confronti di questo referendum e così avremmo avuto un dibattito alla pari, coerente e avremmo avuto anche gli spazi nella tv pubblica che paghiamo cospicuamente col canone Rai. Invitare ad astenersi è gravissimo soprattutto perché non danno gli strumenti alla popolazione per potersi informare in maniera oggettiva sui contenuti del referendum. Pensano che la popolazione italiana sia scema e che non abbia le competenze per andarsi ad informare per conto proprio. È un insulto all’intelligenza degli italiani».
Per il quesito della cittadinanza andranno alle urne cittadini italiani che dovranno votare per l’abrogazione di una legge che non li riguarda. Perché è importante scegliere «Sì» anche in questo caso?
«Fare politica vuol dire esattamente questo: occuparsi delle minoranze, delle persone più fragili e fare in modo che le diseguaglianze siano ridotte il più possibile. Lo dice anche la Costituzione, all’articolo 13.
Con questo quinto quesito si pone l’Italia e si pongono gli italiani di fronte ad una questione riflessiva: cosa intendiamo oggi per cittadino italiano? Si chiede loro di guardarsi allo specchio e riflettere se le persone con cui lavorano, con cui i figli vanno a scuola, con cui le nuove generazioni stanno crescendo braccio a braccio abbiano diritto di poter essere parte al 100% del nostro paese».
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