editoriale
martedì 7 Marzo, 2023
Il pensiero unico
di Franco Rella
Si è via via definito una sorta di canone che stabilisce ciò che deve essere giudicato scorretto, non solo nello spazio politico. Viene dunque attivata una censura che si muove anche retroattivamente
Predichiamo giustamente contro le autocrazie, contro i governi che censurano ogni libera espressione, chiudendo giornali e incarcerando giornalisti, reprimendo intellettuali e studenti con un uso illimitato del potere. Non ci accorgiamo che anche all’interno del nostro mondo sta via via affermandosi un movimento che non può che condurre al pensiero unico. Si è infatti via via definito una sorta di canone che stabilisce ciò che deve essere giudicato scorretto, non solo nello spazio politico, ma anche nell’ambito dell’esistenza e delle varie forme di vita, con particolare attenzione per quanto riguarda la sessualità. Viene dunque attivata una censura che si muove anche retroattivamente, operando chirurgicamente sul corpo vivo dei capolavori letterari, filosofici e artistici, su cui si è costruita la nostra capacità di entrare in rapporto con il reale, di conoscerci e di interagire con gli altri. Dopo aver asportato dal corpo vivo di queste opere “politicamente scorrette” brandelli di carne viva, viene trapiantata la giusta espressione, il giusto comportamento, la giusta visione del mondo in una vera e propria falsificazione, in un’oscena finzione. Lo stesso vale per i monumenti e per la narrazione degli eventi storici che deve agire ortopedicamente anche sulla memoria. È una invasione lenta e silenziosa. Non si avvale di armi o di polizie, e dunque non ci inquieta come dovrebbe invece inquietarci. Il “politically correct” assomiglia al maccartismo culturale negli anni Cinquanta in America, che però, se pure censurava scrittori e metteva al bando registi e attori, mai era arrivato a riscrivere le loro opere adattandole all’ideologia dominante.
Ora, dopo aver parlato del pensiero unico, vorrei ora dire qualcosa sull’”unico pensiero”. È la “magnifica ossessione”, per dirla con il titolo di un film di Douglas Sirk, del consigliere provinciale Claudio Cia che si manifesta nella sua recente proposta di legge, che si muove in continuità con la sua lotta ormai più che decennale contro ogni proposta educativa che porti anche nella scuola questioni che toccano in profondità le nostre esistenze e che gli studenti dovrebbero essere messi in grado di affrontare. Problematiche che Cia, nei tempi della sua campagna avversa a una legge contro l’omofobia, aveva riassunto e che ora ugualmente riassume e coagula in un’unica parola che per lui rappresenta la discesa nell’abisso. La parola è “gender”, ma non è chiaro cosa egli intenda per “gender”, se egli stesso sappia cosa questa espressione significhi davvero. Credo che per lui “gender” voglia dire la differenza, ogni tipo di differenza. Non voglio addentrarmi in questa ardua esegesi e preferisco affrontare quello che è assolutamente chiaro e limpido. È sua ferrea convinzione, che si articola in questa proposta di legge, che sia la famiglia che deve dettare ciò che viene insegnato nella scuola. Io penso che i genitori possano scegliere la scuola verso cui indirizzare i propri figli, pubblica, cattolica, o di qualsiasi indirizzo, ma poi debbano fare un passo indietro. Il processo educativo si basa su una dialettica tra i saperi, le convinzioni della famiglia e quelle che l’alunno e poi lo studente si trova ad affrontare nella scuola, da quella quell’infanzia all’università. La formazione è il risultato di questa dialettica. È per questo che considero la scuola pubblica migliore di qualsiasi altra scuola, in quanto l’articolazione dialettica si arricchisce anche nella pluralità delle opinioni e convinzioni, direi dei caratteri, dei vari insegnanti. È questo che definisce la capacità degli studenti non solo di rapportarsi agli altri, ma anche di rapportarsi con se stessi.
Il pensiero unico odia la dialettica. Anche l’uomo che ha un unico pensiero, come il consigliere Cia, odia la dialettica, che è confronto, talvolta scontro, in cui non si designa un vincitore e un vinto, ma si giunge a progressive mediazioni che sono il cammino verso la coscienza di sé e verso la consapevolezza dell’altro.
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