l'editoriale
sabato 4 Ottobre, 2025
Forza e dilemmi di una piazza
di Simone Casalini
La destra è in difficoltà anche per una ragione storica: il suo sostegno alla causa palestinese. L’impossibilità di contrastare fino in fondo Israele con l’adozione di sanzioni e l’impossibilità di sostenere una ragionevole conclusione della violenza è tutta, dunque, nella storia più recente

Le diecimila persone che venerdì si sono riversate, come un’epifania, nelle strade di Trento per la sopravvivenza palestinese sono un movimento che sfugge alle tradizionali classificazioni sociologiche. Per l’eterogeneità e la distanza delle sue biografie, certamente, e anche per l’assenza di un’egemonia. Lo stesso sciopero generale non spiega l’adesione ideale di quel flusso che si è poi dilatato nelle arterie della città fino ad ostruirle, in una sospensione di protesta e di riflessione. Anzi, la gerarchia del corteo è stata rovesciata a favore degli studenti, e con i sindacati in coda, quasi a voler simboleggiare una corretta interpretazione del fenomeno in corso. Così i volti in primo piano sono quelli di studentesse e studenti, volti che si affacciano nella dimensione pubblica per la prima volta o quasi, riuscendo però a inciderla. Almeno in questa circostanza.
Il primo dato politico è senz’altro la riattivazione spontanea di un magma sociale plurale, guidato dai giovani (universitari e delle scuole superiori), che ha individuato un crocevia comune d’incontro nella tragedia di Gaza. E nell’ossimoro di un’area che ha coltivato il pensiero di pace e praticato quello della violenza cieca.
L’azione militare dell’esercito israeliano è transitata, con il volgere dei mesi, dal sollecitare l’indifferenza alla partecipazione attiva. Un meccanismo, di psicologia politica e di individuazione di «vittima-carnefice», che, per esempio, non è scattato per l’Ucraina dove l’opinione pubblica ha riflettuto anche le divisioni partitiche e le ambiguità dei vari filoni culturali. È un magma nel senso più letterale del termine: non esiste una stella polare, ma un’associazione trasversale di destini, un’energia la cui permanenza non è assicurata.
Insieme all’universo studentesco, tanta gente comune. Il popolo, nella sua accezione anagrafica e sociale più obliqua. A partire dagli insegnanti, l’altra faccia dell’istruzione (molto presente), e poi famiglie, anziani, classe media e quella parte meno visibile che sono l’eredità delle storie migranti, soprattutto di seconda e terza generazione. Tutti coinvolti dalla questione palestinese e dalla pace sfregiata (a livello mondiale) che sono diventate forse l’epigrafe dove misurare anche la propria fragilità e l’ingiustizia che molti testano nel quotidiano. Non si attiva con una manifestazione contro la disuguaglianza crescente o la povertà latente, ma si ritrova in polvere all’interno di pentolone in ebollizione del mondo scoppiato. Guerre (unilaterali), nazionalismi di cui conosciamo già gli esiti, linguaggi oltre la soglia della dialettica, l’offesa come misura di una relazione. È più difficile stimare l’affluenza di chi lo sciopero lo ha convocato. Al di là della funzione di stimolo dei sindacati, operai se ne sono visti pochi ma rischia anche di essere una lettura datata.
Lo spontaneismo travolge per la sua imprevedibilità, ma pone anche dei quesiti. È il principio di qualcosa o inizio e fine nello stesso tempo? È una struttura in costituzione o la destrutturazione è la sua forma e riapparirà quando si materializzerà un altro crocevia in cui sostare insieme? In quella piazza c’era coscienza politica o emotività politica? Evidentemente questo antagonismo di ragioni conduce a scenari differenti. E forse una risposta è anche nella differente costruzione di cosa intendiamo oggi per politica e come si pratica.
La Global Sumud Flotilla, con le sue barchette umanitarie, è stata compresa molto bene dalla destra. La premier Meloni, alla prima vera difficoltà della sua legislatura, si è mostrata nervosa ad ogni ora per quella iniziativa che occupava uno spazio nella politica estera. Che nella sua semplicità radiografava l’impossibilità della Comunità internazionale di interrompere il genocidio di Gaza perpetrato da uno Stato di diritto sostenuto da altri Stati di diritto. La Flotilla ha costretto il governo a intervenire per salvaguardare – militarmente e diplomaticamente – la spedizione. La politica estera filo-americana dell’Italia porta anche in angusti vicoli ciechi. Se oggi la Palestina può sopravvivere come concetto, prima che come entità statuale (a venire), è per l’opinione pubblica internazionale e per l’isolamento del governo israeliano di Netanyahu, determinato anche dal riconoscimento del suo antagonista sulla terra promessa.
La destra è in difficoltà anche per una ragione storica: il suo sostegno alla causa palestinese. Soprattutto del Movimento sociale italiano, da cui provengono molti dirigenti di Fratelli d’Italia, Meloni in testa. L’impossibilità di contrastare fino in fondo Israele con l’adozione di sanzioni e l’impossibilità di sostenere una ragionevole conclusione della violenza è tutta, dunque, nella storia più recente.
Ragionevolmente alla sinistra non verrà nulla da questa manifestazione. E sarebbe un autoinganno se il suo gruppo dirigente si illudesse che sia la prima crepa nel fortalizio di consenso del centrodestra (il voto nelle Marche, l’Ohio italiana…, docet). È talmente distante (ancora) dal puzzle complicato delle masse, dal desiderio di viverci realmente insieme, che in fondo il corteo autogestito ne è una involontaria conferma. Ci sono più società che convivono oggi, le descrizioni delle une non ricomprendono quelle delle altre. I linguaggi delle une non sono quelli delle altre. È un enigma complesso che sfida tutti e che impone cautela anche sulle prospettive e sul lascito di piazze vive, reattive e ideali come quella di ieri.
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