l'intervista
sabato 12 Luglio, 2025
Englaro e il fine vita: «La vicenda di Eluana è pionieristica ma non si confonda col suicidio assistito»
di Massimo Furlani
Il padre della ragazza lecchese che, dopo un incidente stradale nel 1992, ha vissuto 17 anni in stato vegetativo: «Ho obbligato ad affrontare un tema di cui nessuno parlava»
Non si citi il caso di Eluana in riferimento al dibattito sul suicidio assistito che si è acceso in Trentino, «sono cose diverse». È l’appello di Beppino Englaro, padre della ragazza lecchese che, dopo un incidente stradale nel 1992, ha vissuto 17 anni in stato vegetativo prima che, al termine di una lunghissima battaglia legale portata avanti dai genitori fino alla Corte Costituzionale, la sua nutrizione artificiale venisse interrotta. Una vicenda che lo stesso Englaro definisce «pionieristica», che ha avviato il dibattito a livello nazionale, ma che allo stesso tempo è profondamente diversa da ciò che sta accadendo in provincia, dopo che giovedì è stata depositata la legge di iniziativa popolare sul tema in linea con quanto successo in Toscana a febbraio.
Englaro, ciò che sta succedendo in Trentino sul tema del suicidio assistito può essere paragonato alla battaglia che avete portato avanti per vostra figlia?
«La questione è diversa e ci tengo a sottolinearlo: quello che è successo a Eluana e quello per cui ci si sta muovendo adesso sono vicende completamente differenti. Da una parte si tratta del rispetto di un diritto costituzionale, quello dell’autodeterminazione: dall’altro si parla della lotta per nuovi diritti. È un qualcosa che ripeto da anni perché sono tematiche a molti ancora poco chiare, ma che non bisogna assolutamente confondere, non dopo che ho speso 15 anni e 9 mesi per il riconoscimento della libertà di mia figlia. Queste iniziative dal basso oggi chiedono un aiuto a morire, noi chiedevamo che Eluana venisse lasciata morire».
Quindi non c’è nulla in comune fra i due temi?
«L’unico aspetto che accomuna queste storie è l’opposizione fatta da Parlamento e Governo, che nonostante i ripetuti appelli della Corte si muovono sul tema solo quando c’è da bloccare il discorso e ostacolare qualsiasi tentativo di affrontarlo. E mi aspetto che continueranno a farlo».
Oggi però ci sono iniziative popolari, raccolte firme, regioni come la Toscana che adottano leggi sul tema, e anche in Parlamento sembra che si stia muovendo qualcosa dopo i richiami della Corte. Si può dire che i tempi stiano cambiando dopo la vicenda di vostra figlia?
«Assolutamente, è cambiato tutto: io nel portare avanti la battaglia per Eluana mi sono trovato da solo in un deserto, ho impiegato 15 anni e 9 mesi per arrivare alla Corte Costituzionale, oggi invece le iniziative di questi comitati approdano subito a quel grado. La vicenda di mia figlia è stata pionieristica, emblematica a tutti gli effetti anche perché si arrivasse a discutere dei queste iniziative: semplicemente rivendicando un diritto costituzionale, ha obbligato a dare risposte a questioni prima mai affrontate perché nessuno ne voleva parlare».
Perché secondo lei? Quale crede che siano gli ostacoli a livello politico e culturale che portano a non affrontare questo tema?
«L’ostacolo più grande è che l’istinto ci porta verso la vita. È quello che ci avevano detto i medici al primo colloquio dopo l’incidente di Eluana, a cui noi avevamo risposto invece che l’istinto di nostra figlia portava verso la libertà. Istintivamente, tutti dicono “ci provo”, anche senza la consapevolezza di cosa significhi vivere in condizioni come quella di Eluana. Ma lei questa cosa la conosceva, aveva visto il suo amico Alessandro rimasto in coma un anno prima in circostanze simili, e in quell’occasione aveva detto che sarebbe stato preferibile morire piuttosto che trovarsi in quello stato. Per noi genitori si trattava di una vicenda cristallina per la sua chiarezza, non abbiamo mai chiesto che “ci si provasse”. Eppure è servito tutto quel tempo e un iter lunghissimo perché questa volontà prevista, come detto, nella nostra Costituzione, venisse riconosciuta».
Lei da genitore cosa ha pensato in quegli anni trascorsi dall’incidente fino alla morte di Eluana?
«Io credo che condannare a vivere qualcuno che dice di non voler ricevere quel tipo di cure che portano loro malgrado in uno stato non naturale, una condizione estranea, sia un crimine. Io ho sempre definito i medici che seguirono mia figlia in quegli anni dei “criminali legali”, perché loro a livello legislativo erano liberi di fare tutto ciò che hanno fatto a Eluana, esattamente come io ero libero di portare avanti questa battaglia. Tutta la vicenda è nata solo perché lei non era nelle condizioni per dire “no grazie” a quelle cure, come invece avrebbe sicuramente detto».