L'intervista
domenica 25 Maggio, 2025
L’astronauta Parmitano: «La cosa più bella? L’alba vista dallo spazio. Ma ho il cuore spezzato quando lascio i miei figli»
di Luca Galoppini
Il militare si racconta: «La passione dai cartoni giapponesi. Al concorso mi ritrovai con Cristoforetti»

Dallo spazio interstellare al Festival dell’Economia. L’astronauta Luca Parmitano, divenuto il primo italiano al comando di una missione sulla Stazione spaziale interazionale (Iss), è stato il protagonista di due eventi a Trento, dove ha trattato temi riguardanti la geopolitica e il cambiamento climatico in correlazione allo spazio extraterrestre, di cui è esperto conoscitore. Ieri si è raccontato come il Parmitano astronauta, ma anche come l’uomo normale e il padre devoto che si cela dietro a queste grandi imprese.
Cosa l’ha spinta a diventare astronauta e com’è riuscito ad arrivare nello spazio?
«È un desiderio che avevo da quando ero bambino, frutto del periodo in cui sono nato. Negli anni ’80 c’è stato lo Space Shuttle ed io guardavo anche tutti quei cartoni animati giapponesi, pieni di avventure spaziali. Per la realizzazione, invece, è stato un percorso lungo, nato da un’opportunità venuta da un concorso dell’Agenzia spaziale europea, nel 2008. Io venivo dal mondo delle operazioni, sono un pilota militare, pilota caccia diventato pilota collaudatore, requisito per essere astronauta. Dopo un anno di selezioni e requisiti medici, vengo selezionato insieme ad altri 5 colleghi, tra cui Samantha Cristoforetti. Abbiamo fatto poi un altro addestramento, sono stato reclutato nel 2009 e poi sono partito dal Kazakistan, nel 2013, verso la Iss».
Cos’ha provato a vedere la Terra dallo spazio?
«È difficile rispondere perché è come se io chiedessi a qualcuno che ha sempre vissuto in città cosa prova la prima volta che vede il mare. Noi umani non pensiamo in modo lineare, mi servirebbero proprio delle nuove parole per descriverti cos’ho provato la prima volta che ho visto la mia prima alba orbitale. È uno spettacolo che non saprei davvero come descrivere, ma è stata una gioia e uno stupore enorme. Ricordo che gli altri astronauti, che erano già stati nello spazio, invece di guardare la sfera hanno guardato me, per vedere la mia reazione».
Durante la seconda passeggiata nello spazio, c’è stato un intoppo piuttosto pericoloso, con l’acqua nel casco. Come ha gestito quella situazione?
«Devi considerare che vengo da un background da pilota militare, in cui sono stato addestrato per rispondere alle emergenze. Quando diventi pilota ti allenano su tre step: mantieni il controllo del veicolo, analizza la situazione e fai la cosa giusta. Cosa potevo fare in quel momento? Rientrare il prima possibile. In momenti come quello, entrano in gioco l’esperienza, l’addestramento e le tue capacità».
Ci sono ulteriori missioni in programma a cui lei parteciperà?
«Dobbiamo capire qual è il futuro nei prossimi tre, quattro anni. Molto dipenderà dall’Agenzia spaziale europea e a novembre inizierà il Consiglio. Per quanto mi riguarda, non ho ancora 50 anni, avrò almeno altri 20 anni di carriera davanti e spero davvero di contribuire ancora in questo lavoro».
Quali sono gli aspetti più difficili da affrontare quando si è in orbita? Oltre ai mille aspetti tecnici da gestire, mi riferisco a quelli più umani, come la mancanza da casa o la solitudine.
«Più che aspetti difficili da gestire, ti direi che ho acquisito una consapevolezza, di cui sono abbastanza certo, che è che il prezzo da pagare per chi fa il mio lavoro e per tutti i miei colleghi, i piloti militari, tutti quelli che fanno questo tipo di lavoro. Il prezzo da pagare lo paga la tua famiglia. Questa consapevolezza è un dolore che io definisco “dolore perfetto”, perché tutte le volte che io devo lasciare i miei figli, che hanno 15-18 anni, da padre, mi ritrovo con il cuore spezzato. Ma è una consapevolezza che mi fa capire che, come dicevi, non ho ancora perso l’aspetto umano di questo lavoro».
Quale consiglio darebbe ai giovani che vorrebbero diventare astronauti?
«In parte è quello che faccio già, perché lavoro con giovani astronauti in addestramento a Houston. Sono il loro mentore, il loro istruttore. Non do consigli, perché credo significhi mettere la mia esperienza sopra la loro. Quello che posso offrire è una mappa di esperienze, di percorsi o strumenti che possono utilizzare, come li ho usati io, per andare avanti nel loro lavoro. Voglio trasmettere loro quello che ho vissuto io per permetter loro di fare sempre meglio. Quando parlo con loro, non dico mai che voglio che abbiano successo. A me interessa che siano delle eccellenze nel loro lavoro».
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