il commento
martedì 17 Settembre, 2024
di Claudia Gelmi
Come vivono le comunità in guerra, quando la guerra si combatte lontano dalle loro case? Come si avvicendano le stagioni nell’attesa di un ritorno, di una lettera, della parola «fine»? Il film di Maura Delpero «Vermiglio» – presentato in anteprima lo scorso fine settimana, sabato in val di Sole e domenica al cinema Vittoria di Trento – raffigura in un affresco corale, quanto universalmente rappresentativo delle culture rurali del nostro recente passato, la vita di una famiglia sul finire della Seconda guerra mondiale, raccontandone di come, con l’arrivo di un soldato rifugiato, «per un paradosso del destino, essa perda la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria». La guerra è un’entità che non si vede mai, ma che influisce sulle sorti dei vari componenti della comunità, nell’inesorabile scorrere delle loro vite.
Il film vincitore due sabati fa del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia ha riportato in auge rimembranze di un tempo che ancora vive dei suoi diretti testimoni, ma che nei decenni che dal dopoguerra ci hanno traghettati e traghettate fino a qui, sembra lontanissimo. È «bastato» un film per accomunare tre/quattro generazioni nel ricordo, o nella narrazione di quel ricordo, e sentire battere all’unisono i cuori delle centinaia di persone che hanno assistito alla proiezione. È l’incantesimo del cinema, quando si compie. Protagoniste di «Vermiglio» sono di fatto persone che non si trovano nei libri di storia, ma che sono l’humus e anche la spina dorsale della storia, la «nostra» storia, quella delle piccole comunità delle terre alte, ma così comune ad altre storie di altre latitudini e altitudini.
È una realtà crepuscolare nei colori e nella lentezza deterministica delle azioni quella di «Vermiglio», che dice di famiglie numerose e povere, di bambini stretti nei letti che non bastano per tutti, dell’ineluttabilità delle morti così come dell’inarrestabilità delle nascite, di scelte dure e inappellabili, di chi decidere di far studiare tra i tanti figli, di scodelle di latte che è poco ma alla fine basta per tutti, di un ciclo dell’esistenza che riverbera in ugual misura per uomini, animali e paesaggio. Il tutto è reso da una scrittura drammaturgica raffinatissima, da cui emerge, anche attraverso l’uso del dialetto locale come lingua principale del film, un’intera cultura ed educazione contadina, fatta di silenzi, parole poche e ruvide, sentenze definitive, ma intervallata con abilità dal brio ironico, irriverente e vispo dell’infanzia, allora così ubiqua e copiosa. La scrittura si trasfigura in immagine grazie a una fotografia a tratti trascendente, che rimanda a suggestioni segantiniane (la stessa regista ha dichiarato di essersi ispirata al pittore Giovanni Segantini), a quadri che, nell’incedere crepuscolare delle esistenze, fanno emergere il brulicare della vita e filtrare il richiamo della luce.
L'intervista
di Tommaso Di Giannantonio
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