l'editoriale

lunedì 27 Ottobre, 2025

Sicurezza senza umanità

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Il «sorvegliare e punire» di Michel Foucault è transitato nel «rinchiudere ed espellere» perché oggi il soggetto del castigo non è più il delinquente comune, ma il migrante. Che reca con sé una doppia colpa: essersi affacciato nel continente sbagliato e mostrare segni di devianza

Dunque, dalla metà del 2026 il Trentino avrà il suo Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) che sarà localizzato appena a sud della Motorizzazione, in una palazzina di sei appartamenti che sarà demolita e ricostruita in chiave Panopticon. Il «sorvegliare e punire» di Michel Foucault è transitato nel «rinchiudere ed espellere» perché oggi il soggetto del castigo non è più il delinquente comune, ma il migrante. Che reca con sé una doppia colpa: essersi affacciato nel continente sbagliato e mostrare segni di devianza.
L’accordo con il ministro dell’Interno Piantedosi per la costituzione del Cpr ha almeno due piani politici di lettura. Nel primo è difficile non riconoscere, per quelli che sono i suoi obiettivi e proclami, il successo del presidente Fugatti. Ottiene la realizzazione del Cpr, che nel suo elettorato è uguale a consenso, e il dimezzamento in prospettiva della quota di rifugiati sul territorio provinciale (da 700 a 350).
In più la nuova struttura cadrà sul Comune di Trento, cioè in campo avversario, aprendo anche un tema di incongruenze nel centrosinistra. Ma come, avrà ponderato il governatore leghista, il sindaco che ha esteso il Daspo urbano alla città (voto unanime in Consiglio) e chiesto l’esercito non può accettare il Cpr? In fin dei conti è l’ultimo anello di congiunzione della filiera securitaria. Fugatti ha giocato di sponda con il governo, seppur in una fase – ormai permanente – di conflitto con Fratelli d’Italia. Che a livello provinciale è stata marginalizzata e ridotta all’impotenza tanto che la Lega può presentare un disegno di legge sulle carriere dei docenti che ipoteca dieci milioni di euro di bilancio che dovrebbe gestire l’assessora Gerosa. Il disegno di Fugatti ha un potenziale punto debole: un’Autonomia speciale che si sottrae ad una responsabilità, lasciandola alle regioni ordinarie, rischia di riaprire antichi rancori.

Il secondo piano politico è che questo consuntivo non tiene in considerazione le vite umane. Non riusciamo più a immedesimarci nell’altro e quindi non cogliamo più la sofferenza di chi chiede aiuto. Tutte le biografie che si perderanno o quelle che non avranno un’occasione di rovesciare il loro destino a causa della riduzione dell’accoglienza (già ai minimi) usciranno semplicemente dai nostri radar senza un sussulto di coscienza. Da qualsiasi parte la si osservi, è una sconfitta.

Nella tappa di Fiavé del Tour dell’Autonomia, promossa dal nostro quotidiano, Yeman Crippa ha raccontato la sua storia di bambino etiope finito in orfanotrofio all’età di 5 anni per l’improvvisa morte dei genitori. «I miei zii mi avevano detto che sarebbero tornati a prendere me e i miei fratelli e sorelle, ogni volta che sentivo un clacson alle porte dell’orfanotrofio pensavo fossero loro. Poi capii, grazie ad una bambina più grande, che non sarebbero mai arrivati. Aspettavamo l’adozione» ha raccontato con la consapevolezza di un uomo che ha rielaborato la sua storia. Alle soglie dell’orfanotrofio si è, invece, presentata una nuova famiglia trentina che ha adottato lui, i cinque fratelli e sorelle e due cugini. «Per me sono degli eroi perché mi hanno insegnato con quel gesto cos’è l’amore. Se fossi rimasto in Etiopia sarei stato una persona povera, qui ho potuto realizzare i miei sogni anche se non ho mai vissuto nella ricchezza» ha concluso. Ma davvero l’amore deve rimanere una prerogativa del privato, un fatto personale, un atto individuale? Le istituzioni, per la loro natura, non possono esprimerlo? È legittimo domandarselo di fronte a politiche che accoglieranno il punto di vista della maggioranza silenziosa, ma che non rispettano il valore della vita. La compressione degli spazi dell’accoglienza, già ridotti e sfogliati dei servizi essenziali, aprirà una nuova fenomenologia di questioni sociali perché la disperazione non conosce argini efficaci.
La domanda di sicurezza – che c’è e si manifesta nel quotidiano – è l’esito della fragilità delle nostre relazioni. La Grande crisi del 2008, innescata dai mutui subprime, non ha solo cambiato il panorama sociale, portando alla miseria il ceto medio e accentuando le disuguaglianze, ma ha reso evidente che nessuna narrazione collettiva teneva più insieme le nostre vite. Solo il benessere apparente. Perso lo scudo della comunità, siamo diventati come monadi che si barcamenano per superare la giornata, ad eccezione di chi può schermarsi con il proprio privilegio. Se le disuguaglianze sono l’alimentatore di questa situazione e moltiplicano i capri espiatori (che non sono mai chi avrebbe il potere di risolverle), la debolezza della politica non fa emergere alternative e ha generato un esodo di cittadini dalla democrazia.
Proprio l’assenza di una visione altera, che non sia la compassione o il tamponamento di emergenze o il tatticismo, è l’altro capo del problema perché non instaura una dialettica radicale ma lascia alla testimonianza individuale o al volontariato di strada il compito di sventolare la bandiera della dignità umana. I dibattiti politici, in provincia e sul capoluogo, vertono sempre su miliardari sudoku urbanistici, mai su progetti sociali che restituiscano un respiro reale ad una società affaticata.
Al di là dei Centri per rimpatri – peraltro istituiti dalla legge Turco-Napolitano, due ex Pci, nel 1998 e quindi dal centrosinistra, e poi applicati in modo deforme – quello che manca è un po’ di umanità. L’idea che la paura possa essere governata dalla speranza e dall’amore.