La storia
sabato 26 Luglio, 2025
Pergine, storia del «manicomio» progettato dall’ingegner Josef Hunter nel 1881. In un secolo è passato da 200 a 1500 pazienti
di Alberto Folgheraiter
L’ospedale di Hall, nel Nord Tirolo, non era più in grado di accogliere tutti i malati del Welschtirol, il Tirolo italiano. Così si pensò a una nuova struttura
Nel corso del XIX secolo furono istituite strutture per la cura dei poveri e degli infermi in tutte le valli. Da Ala a Mori, da Rovereto a Riva del Garda, da Arco a Santa Croce di Bleggio, a Tione; da Cles a Mezzolombardo, da Trento a Pergine, da Borgo Valsugana a Cavalese. Nel corso dei decenni, talune strutture sono diventate «case di riposo» o, come si chiamano oggi «Aziende per i Servizi alla Persona».
L’ospedale di Rovereto
Già intitolato a «Santa Maria del Carmine», l’ospedale di Rovereto cominciò ad operare il 6 agosto 1889. Vi erano stati trasferiti i malati, fino a quel momento ricoverati nelle fatiscenti strutture dedicate alla «Madonna di Loreto». Il vecchio ospedale era stato fabbricato nel 1713 per iniziativa della Confraternita dei santi Rocco e Sebastiano, i protettori invocati nell’imminenza di pestilenze e contagi. Nel 1836, al tempo della prima epidemia di colera che nel territorio della Pretura di Rovereto uccise 1.068 persone, l’ospedale della «Madonna di Loreto» non aveva ancora l’acqua corrente. Ci si serviva di un vecchio pozzo. Con l’apertura di corso Rosmini (1872) l’ospedale, che aveva 84 posti letto, fu privato del giardino destinato ai convalescenti. Si decise il trasferimento in una nuova struttura che, fin dal 1833 il filosofo Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) aveva individuato negli stabili accanto alla chiesa di Santa Maria del Carmine, già sede del soppresso convento dei Carmelitani.
Documenta Renato Stedile (APSS Notizie, 2004): costato 100 mila fiorini, il nuovo ospedale (progettato dal conte milanese l’ing. Girolamo Sizzo) disponeva di circa cento posti letto, una parte dei quali destinati al ricovero stabile di anziani e, temporaneo, dei malati psichiatrici in attesa del trasferimento all’ospedale specializzato di Pergine Valsugana.
Il «manicomio» di Pergine
Archiviato il medioevo degli esorcismi e delle pratiche esoteriche, nel Trentino «austriaco» la cura della malattia psichiatrica trovò un approdo nel «manicomio» di Pergine Valsugana (1874). L’ospedale di Hall, nel Nord Tirolo, non era più in grado di accogliere tutti i malati del Welschtirol, il Tirolo italiano. Una commissione, incaricata di individuare l’area, visitò Trento, Pergine, Rovereto e Civezzano. Se l’ospedale faceva gola per i possibili sbocchi occupazionali, era tuttavia osteggiato per i pregiudizi che si sarebbe portato appresso e lo stigma che avrebbe marchiato la comunità circostante. Per gli «ignoranti», infatti, Pergine divenne sinonimo di follia così come Arco, città di cura dei colpiti dalla TBC, la tubercolosi, fu chiamata, con disprezzo, «la sputacchiera d’Italia».
Alla fine fu scelta Pergine. L’imponente edificio destinato alle cure psichiatriche, progettato dall’ing. Josef Hunter, fu completato nel luglio del 1881. Sorse sull’area di maso San Pietro, alle pendici del Tegazzo, terreno che il conte Crivelli aveva ceduto a condizioni vantaggiose. Erano previsti 200 posti letto. I lavori, cominciati nel febbraio del 1879, impegnarono 330 maestranze per due anni. Ci furono tentativi da parte di gruppi di perginesi di bloccare i lavori. Inutilmente. Il 19 settembre 1882, nei giorni di una devastante alluvione, l’ospedale psichiatrico aprì le porte ai primi malati di origine trentina fatti rientrare da Hall. Lavori di ampliamento cominciarono fin dall’anno seguente: 370 posti di lì a pochi anni; 516 ammalati nel 1912. Alla fine della Grande guerra, il «manicomio» di Pergine diventò centro di riferimento psichiatrico della Venezia Tridentina (l’attuale regione Trentino-Alto Adige). Nel 1923 furono creati 48 nuovi posti letto. L’anno seguente, i programmi fascisti ipotizzavano già mille posti letto.
Il patto fra Mussolini e Hitler sulle opzioni, coinvolse anche l’ospedale di Pergine Valsugana. Numerosi ammalati di lingua tedesca furono trasferiti (deportati) da un manicomio all’altro dei territori del Terzo Reich: Zwiefalten, Weissenau, Schussenrid, Grafeneck. Per molti di loro si persero le tracce, risucchiati nel tragico «programma T4», che contemplava l’eliminazione fisica degli alienati, dei disabili fisici e psichici.
Alla metà degli anni Settanta a Pergine c’erano 1.500 ricoverati. Con la legge 180 del 1978 il manicomio fu «cancellato» e trasformato in «centro di salute mentale».
La storia del dopoguerra è la storia dei dibattiti sorti intorno alla psichiatria. La riforma prospettata dalla «legge Basaglia», dal nome dello psichiatra che propugnava un approccio diverso alla malattia psichica, un orientamento umanitario, ha scaricato sulle famiglie il peso del disagio psichico.
Da qualche anno, a Pergine, negli spazi già occupati padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico è stata allestita la nuova struttura riabilitativa di «Villa Rosa». Il vecchio fabbricato, sulla collina, sopra il Mas del Grillo, progettato nel 1912 dall’arch. Eduino Maoro di Pergine (1875-1950), è abbandonato dal 2013. Qualche mese fa la Provincia lo ha ceduto agli eredi del conte Spaur nell’ambito della trattativa per l’acquisizione al demanio pubblico di Castel Valer, in valle di Non.
«Villa Rosa» era stata fabbricata per conto di Vittorio Napoleone Dallarosa, tornato dall’America con una discreta somma che gli aveva consentito di comprare perfino il titolo di «marchese». Scriveva Roberto Gerola (giornalista del «Trentino»): «Dopo alterne vicende divenne convalescenziario Inail per la riabilitazione di traumatizzati sul lavoro. Sul finire degli anni ’70 passò alla Provincia e quindi all’Azienda sanitaria».
A Borgo Valsugana, un «ospedale dei poveri» fu avviato nel XIV secolo dalla «Confraternita di San Lorenzo». Negli atti della visita pastorale del 1585 da parte del vescovo di Feltre si nota che «il dormitorio [dell’ospedale] ha sei letti sufficientemente forniti nei quali devonsi collocare anche i poveri pellegrini, in caso di bisogno…». Nell’Ottocento vi operavano: un medico, un infermiere e alcune suore.
Nel novembre del 1912, dopo discussioni e progetti fu avviata la costruzione del nuovo ospedale che fu consegnato alla popolazione giusto un anno dopo: il 19 novembre 1913. Erano previsti un anno di lavori e una spesa di 200.000 corone austriache. Tanto si impiegò e si spese, non un giorno o una corona in più.
Sull’«Alto Adige» del 19 novembre 1913 si scrisse che «il nuovo ospedale è terminato. È un edificio che potrebbe stare in qualsiasi città. Elegante e serio nel suo esteriore, presenta nell’interno tutte le comodità, che l’igiene e l’esigenza moderne pretendono».
La Grande guerra portò a Borgo feriti e moribondi che arrivavano dai fronti della Serbia e della Galizia. Negli anni Cinquanta, con la dotazione di una «bomba al cobalto» per la cura dei tumori, donata dagli Stati Uniti, l’ospedale di Borgo divenne approdo di ammalati anche da fuori regione. Lavori di ampliamento, con la sopraelevazione di un piano, portarono a una capienza di 148 posti letto.