l'intervista
lunedì 8 Settembre, 2025
Paola Caridi: «Rischiamo davvero l’espulsione dei palestinesi da Gaza. E la diplomazia non inciderà nel dire che non si può espellere la popolazione»
di Paolo Morando
Saggista e giornalista sarà ospite mercoledì prossimo 10 settembre a Oriente Occidente, alle 18 all’auditorium Melotti di Rovereto

Paola Caridi sarà mercoledì prossimo 10 settembre a Oriente Occidente, alle 18 all’auditorium Melotti di Rovereto. In dialogo con Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino, parlerà di Gaza prendendo spunto dall’immagine con cui il fotografo palestinese Mohammed Salem vinse il World Press Photo 2024: «La Pietà di Gaza», cioè il sudario che avvolgeva il piccolo corpo di Saly abbracciato dalla zia Inas. Saggista e giornalista, Caridi è nata a Roma nel 1961. Dopo un dottorato di ricerca in storia delle relazioni internazionali, da oltre vent’anni si occupa di Medio Oriente e Nord Africa, in particolare di Islam politico in Palestina ed Egitto. Ha insegnato all’Università di Palermo e all’Università di Betlemme. «Ho scritto un libro che uscirà tra pochissimi giorni per Feltrinelli – afferma – e che si intitola “Sudari. Elegia per Gaza”. Nasce da un percorso avviato a inizio anno, quando sono comparse sempre più numerose foto dei sudari da Gaza, sorta di caramelle in cui vengono avvolti i corpi dei bambini e dei loro genitori. L’immagine di Salem mostra una bambina di cinque anni abbracciata a sua zia, perché sia la bambina sia sua madre erano state uccise in un bombardamento. Una foto terribile e delicata allo stesso tempo».
Non ha remore a usare la parola genocidio. D’altra parte il dibattito su quel termine appare già sorpassato dagli eventi, non è quasi più in discussione. Il che dà la misura del continuo aumento della drammaticità della situazione.
«E anche la misura di quanto fosse debole quella polemica. Lo dico in una doppia veste: quella di storica della questione israelo-palestinese e quella di cittadina italiana senza potere. Riguardo al primo aspetto, ho iniziato a usare quel termine da settembre 2024, quando ne è stata conclamata l’intenzionalità, perché si seppe di un piano dei generali israeliani in congedo che parlava del completo annientamento della parte nord della Striscia di Gaza. Parliamo di centinaia di migliaia di persone. Quindi l’intenzionalità è stata messa nero su bianco, approvata dal governo israeliano e da tutte le istituzioni di quel Paese: è uno Stato a compiere un genocidio, non un singolo. Ma il tema era già all’attenzione della Corte internazionale di giustizia: quando il Sudafrica ha chiesto di esprimersi sul rischio genocidiario ha detto sì, il rischio c’è. Lo ha detto nel gennaio 2024, tre mesi dopo il 7 ottobre. Mentre l’altro organismo, la Corte penale internazionale, ha emesso un mandato di cattura nei confronti di Netanyahu e quattro altre persone, tre di Hamas che sono state uccise con omicidi mirati e l’ex ministro della difesa israeliano, parlando di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Che cos’altro dovevamo dire?».
Parlare di genocidio, si dice, significa banalizzare la Shoah.
«Parlare di genocidio fa paura a chi lo compie, è una questione fondamentale perché è regolata da una convenzione internazionale. Se si compie un genocidio, poi si viene processati. Ed è un problema per quei Paesi, come l’Italia, che sono complici sostenendo un Paese alleato come Israele, fornendogli tecnologie militari e altro. Questo è il problema: usare la parola genocidio implica una responsabilità giuridica, mentre termini come massacro, sterminio, pulizia etnica non hanno una regolamentazione dal punto di vista del diritto internazionale. Siamo stati accusati di fare una polemica nominalistica, ma è invece una questione prima di tutto giuridica».
Mentre nelle vesti di cittadina?
«Faccio parte di un piccolo gruppo che si chiama “Ultimo giorno di Gaza” che ha svolto varie azioni, ricordo la prima a inizio maggio, appunto sull’uso della parola genocidio. Adesso sono passati pochi mesi ed è vero, sulla parola genocidio non c’è più discussione: è un termine che quasi tutti i senza potere, quindi i cittadini non solo italiani, i cattolici non solo italiani, le persone ordinarie usano. I decisori hanno invece un grosso problema a usarlo e c’è quindi un serio scollamento tra le opinioni pubbliche e i governi».
Mentre avanzano i piani di occupazione di Gaza e pure della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano, in questi giorni è salpata la Global Sumud Flotilla. Che valore possiamo dare a mobilitazioni di questo tipo, dal duplice punto di vista dell’impatto sull’opinione pubblica e della concretezza effettiva dei risultati di un’azione del genere?
«C’è un elemento politico, che riguarda la pressione di azioni civili e pacifiche come queste sui governi nazionali e le organizzazioni internazionali. Io credo che la sentano, perché è evidente che il consenso contro il genocidio è trasversale, non si può identificare con un preciso partito politico. Comprende sinistra, destra e centro, atei e credenti di diverse fedi religiose. È trasversale anche perché siamo stati educati al “mai più”: un genocidio non deve più accadere, a nessuno. Ha impatto sulla dimensione civile, e lo si vede dalle 50 mila persone che sono andate al porto di Genova per salutare la Flotilla. Le 200 tonnellate di aiuti che sono state raccolte dicono anche che quella città non è solo la città del G8: è la città Medaglia d’Oro della Resistenza. Dicono anche moltissimo di quanto tutti i decisori siano spaventati da un’operazione in cui protagonisti sono i cittadini, le persone che non hanno un ruolo specifico nella politica nazionale, e che esprimono invece una dimensione civica, in cui ognuno e ognuna si sente protagonista».
In assenza di interventi dei governi.
«Esatto. A questo punto ognuno si sente nei panni di chi a Gaza rappresenta i senza potere, la popolazione civile: potrebbe succedere a me di essere colpito da un drone, che un computer decida che io devo morire. Sono questioni enormi che investono la nostra vita quotidiana. Siamo già diversi rispetto a prima del 7 ottobre 2023, anche se la questione israelo-palestinese non inizia certo quel giorno. I cittadini sono andati oltre, dicendo: no, questa cosa riguarda anche me».
Questo andare oltre dei cittadini ci dice anche che non c’è più spazio per la diplomazia? E che la situazione è destinata a precipitare ulteriormente, specie se i piani di occupazione israeliana verranno davvero concretizzati?
«Il vero problema è che si rischia davvero l’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. E a quel punto la diplomazia metterà dei cerotti, non inciderà nel dire che non si può espellere la popolazione, cosa che in Cisgiordania sta già accadendo, con villaggi sloggiati e campi profughi. Il cittadino spera di forzare la mano, così come avviene con uno sciopero generale: si manifesta al proprio governo che c’è qualcosa che non va. Lo abbiamo sempre fatto come pratica politica. In questo caso è una pratica che va oltre i confini nazionali. E questa è la vera differenza. C’è un civismo internazionale».
Lei vede una via d’uscita?
«Io ho deciso di non vederla da un punto di vista morale e umano. Per me la barra a dritta è fermare il genocidio. Ma lo è anche dal punto di vista dell’analista politica, a seconda di quando e di come si fermerà il genocidio. Avverrà con l’espulsione dei palestinesi da Gaza oppure prima? La Cisgiordania sarà annessa a Israele oppure i singoli Stati e l’Onu riusciranno a interrompere tale processo? Sulla base di quanto accadrà, allora potremo dire se Israele conquisterà tutto, oppure se imploderà e se forse, tra dieci, venti o trent’anni, avremo due Stati. Ma quest’ultima soluzione è la più improbabile di tutte».
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