L'editoriale
mercoledì 20 Agosto, 2025
Overtourism e il valore della cultura
di Alessandro De Bertolini
Intere vallate alpine si stanno svuotando, altre sono brutalizzate da eccessi di turismo che non si deve rispedire a casa ma vanno invece regolamentati e indirizzati

Quale compromesso tra i limiti oggettivi della montagna, che non può accogliere un numero illimitato di persone, e il diritto di ciascuno di poterci andare, come situazione giuridica soggettiva difficile da negoziare? L’accesso alla montagna vive oggi di contraddizioni. Le stesse che caratterizzano la nostra società. Perciò è complicato sbrogliarle. Come spesso accade e come è accaduto, l’arco alpino – uno spazio intraeuropeo attraversato da enormi cambiamenti – si trova al centro del dibattito quale grande laboratorio transnazionale e multietnico per la messa a punto di buone pratiche e per l’elaborazione di modelli di organizzazione territoriale sostenibili. Così i nodi da sciogliere in pianura vengono al pettine in montagna, metafora della contemporaneità: sovraffollamento e convivenza, isolamento e marginalità. Intere vallate alpine si stanno svuotando, mostrando drammaticamente i segni dell’abbandono. Altre sono brutalizzate dagli eccessi di turismo e da forme di sfruttamento obese con le mani a forma di salvadanaio.
Soffocate da queste dinamiche, spesso in antitesi tra di loro, a rimetterci di più sono certe comunità alpine e l’idea stessa di montagna. Abbiamo imparato che non possiamo dimenticarci delle zone a bassissima frequentazione. Ma non prendiamo sufficienti misure contro l’abbandono. Abbiamo imparato che non è giusto plasmare la montagna sulle esigenze del turista. Ma continuiamo a farlo. Abbiamo capito che non possiamo favorire forme di turisticizzazione che concepiscono certe vallate come spazi eminentemente dedicati ad esperienze di consumo. Ma non riusciamo veramente a invertire questa tendenza.
Il problema dell’iperturismo – anche se non lo chiamavano così – esiste da molto tempo. Già alla fine dell’800 alcuni osservatori, perlopiù viaggiatori e intellettuali, consideravano che non giovasse alla montagna delle Alpi l’invasione di orde di cittadini con bastoni da passeggio. I numeri di allora non erano paragonabili all’overtourism di oggi. Ma le coscienze più suscettibili (o lungimiranti?) avevano scoperto il nervo. Il fenomeno rimase contingentato per lunghi decenni in alcune piccole aree e valli delle Alpi, fino alla democratizzazione del tempo libero, quando, nel dopoguerra, il boom economico e una crescita diffusa condussero migliaia di famiglie in montagna, interpreti di forme differenti di villeggiature che andarono modificandosi nel tempo. Nacquero così quei fenomeni variamente definiti come «l’invenzione dell’estate» e «l’invenzione dell’inverno», confluiti in seguito nelle più generaliste settimane verdi e settimane bianche. Da un punto di vista storico, queste nuove tendenze evocavano l’idea più radicata di una montagna salubre e ricreativa, spazio di cura e di benessere per il ristoro fisico e mentale dell’individuo. L’immagine di una montagna curativa si era diffusa infatti nella seconda metà dell’800 tra le élite della società europea, lasciando forse intravedere la crescita di un turismo in espansione nei suoi più variegati lineamenti. In pochi, però, seppero intuire il corso degli eventi. E tra questi vi fu presumibilmente Theodor Christomannos, ingegnere austroungarico che progettò la Strada delle Dolomiti, la via carrozzabile che ancora oggi collega Bolzano con Dobbiaco passando per Canazei e Cortina d’Ampezzo. In una piccola pubblicazione apparsa nel 1909, scriveva così Christomannos: «Il Catinaccio e il Latemar formano la “Porta delle Dolomiti” (sopra Bolzano) attraverso la quale annualmente migliaia di turisti penetrano nella regione misteriosa di quelle montagne, sulle quali sono stati costruiti rifugi molto accoglienti». Qui passa «la nuova Grande strada delle Dolomiti, la quale schiude questi monti all’immensa fiumana di turisti». A precorrere i tempi è soprattutto quest’ultima parola: fiumana.
Quasi centoventi anni dopo – la Strada delle Dolomiti fu inaugurata nel 1909 tra lo stupore dei primi turisti che vi si avventuravano in carrozza – governare «l’immensa fiumana» è diventata una delle sfide più importanti per le comunità alpine e una delle cifre che mettono a nudo vizi e virtù della nostra società. Al nocciolo della questione il tanto evocato governo del territorio alpino. Servono nuove risposte a nuove domande. E occorrono politiche di pianificazione a lungo termine motivate da scelte consapevoli per dare campo a uno sguardo responsabile sul futuro della montagna. La posta in gioco sono la montagna stessa i nostri modelli di sviluppo e di sostentamento in arco alpino. Preoccupano l’oggettiva difficoltà di governare i flussi di turisti in montagna e la mancanza di soluzioni immediate e condivise. Promuovere percorsi di monitoraggio per studiare i flussi e imparare a conoscerli è il primo passo da compiere. Servono analisi dello status quo e dati da processare, perché solo conoscendo un fenomeno lo si può governare. In tale direzione, peraltro, si sono mossi diversi enti territoriali e amministrazioni pubbliche nelle Alpi. Tra queste le due provincie autonome di Trento e Bolzano e la Fondazione Dolomiti Unesco. Gli eccessi di turismo non vanno rispediti a casa ma vanno regolamentati e indirizzati. In montagna, di turismo, si vive.
È però indispensabile che queste misure siano accompagnate da un percorso di rialfabetizzazione culturale diffuso e radicale, che cerchi di comunicare che cosa è la montagna ai turisti, ai residenti e a tutti coloro che operano nel settore dell’accoglienza. Da un lato, è necessario superare una visione della montagna idealizzata e stereotipata lontana dalla realtà: non il luogo dello svago o dell’incontro esclusivo con la natura selvaggia, ma uno spazio di vita dove convivono esigenze di conservazione della biodiversità e bisogni di sostentamento delle comunità locali. Dall’altro, occorre reintrodurre il concetto del limite in una società, la nostra, che continua a promuovere il modello del no-limit.
A cominciare da queste consapevolezze dobbiamo riformulare un discorso sulla montagna volto a favorire la diffusione di un’etica della responsabilità per educare alla montagna. Gli eccessi di infrastrutturazioni e di frequentazioni turistiche sono, in questo senso, l’emersione in superficie di questioni profonde, che non possiamo pensare di risolvere con forme discutibili di protezionismo. Regolamentare gli accessi alla montagna con divieti può funzionare solo come misura d’occorrenza eccezionale e temporanea. Difficile immaginare che la montagna possa essere diritto di alcuni e non di altri.
*Ricercatore della Fondazione Museo Storico del Trentino