L'intervista

domenica 26 Ottobre, 2025

Nadia Bredice, la campionessa di arrampicata non vedente: «Ho reimparato l’equilibrio»

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Atleta aretina affiliata all’Arco Climbing

C’è un genere di determinazione che non ha bisogno della vista per arrivare in alto. È quella di Nadia Bredice, atleta aretina affiliata all’Arco Climbing, che, insieme alla guida Sonia Cipriani, si è recentemente laureata vicecampionessa ai mondiali di paraclimbing di Seul. Questo secondo posto straordinario vale molto di più della medaglia in sé: rappresenta il coronamento di un lungo percorso, fatto di duro lavoro, amicizia, fiducia reciproca e passione. L’arrampicata è entrata nella vita di Nadia nel 2017, quasi per caso, in una palestra di Arezzo. «È stato amore a prima vista – racconta l’atleta –. Degli amici mi hanno fatto provare così, senza un motivo particolare, e da allora non ho più smesso».

In che misura la cecità ha influenzato la sua percezione del movimento, soprattutto nei primi approcci alla parete?

«Io ho perso la vista in un secondo momento della mia vita: sono nata ipovedente, poi la malattia, che mi è stata diagnosticata a 23 anni, mi ha portato via il resto. L’equilibrio dipende da tre elementi: vista, orecchio e percezione del corpo. Togli la vista, e devi reimparare tutto da capo. Quindi sono proprio cambiata io. L’arrampicata, poi, è un gioco di equilibrio e concentrazione che aiuta tantissimo ad acquisire consapevolezza del corpo, perché ti obbliga ad adattarti a ciò che hai davanti per raggiungere la presa successiva. Anche solo andare in falesia è un allenamento: ogni passo sulla roccia richiede attenzione, devi sentire come appoggi il piede e calibrare il peso. Sono cose che per altri sono automatiche, ma per me richiedono concentrazione totale».
Qual è il suo regime di allenamento?
«Le gare sono indoor, quindi mi alleno sempre su strutture artificiali. La falesia è, per me, la parte più bella, quella ricreativa, dove vado per il piacere di toccare la roccia e stare nella natura. L’allenamento vero è sull’artificiale; arrampicata e preparazione atletica. A questo aggiungo lavoro cardio, che fa sempre bene. L’obiettivo è migliorare forza e resistenza, ma anche compensare i punti deboli. Il corpo deve essere preparato per sostenere tutto il lavoro che richiede l’arrampicata».

Ci parla del rapporto con Sonia Cipriani?

«Ho conosciuto Sonia nel 2021, ad Arco. La mia guida dell’epoca mi aveva dato buca due settimane prima della gara, ma alla fine è stato un bene: Loris Manzana, guida alpina e tracciatore internazionale, mi ha indirizzata verso di lei, dando così vita a un bellissimo percorso con Arco Climbing, la mia società sportiva. Io e Sonia abbiamo un rapporto professionale, ma anche di amicizia e profonda conoscenza reciproca. Più ti alleni insieme, più impari a conoscere l’altra persona, i punti di forza e le debolezze. È un vero gioco di squadra. Si vince e si perde insieme».

Vuole condividere qualche impressione sul mondiale di Seul?

«Sono contenta del risultato, anche se speravo in qualcosa di più. Era una gara in cui sapevo di avere buone possibilità: stavo bene, le avversarie erano forti ma alla mia portata; lo scarto finale è stato minimo. Ho fatto un piccolo errore di valutazione che mi è costato, ma fa parte dello sport. Resta comunque un’esperienza intensa, emozionante e che mi ha lasciato tanto».

Le sembra che il paraclimbing stia acquisendo maggiore visibilità?

«Ho iniziato a gareggiare nel 2019 e dal 2021 a oggi ho visto tanti cambiamenti. Più atleti, più gare, più attenzione da parte della Federazione. Continuano, tuttavia, a mancare il supporto economico e degli sponsor. A parità di risultati, un atleta para non ha la stessa considerazione di uno normodotato: basta vedere la differenza nei premi per le medaglie. Purtroppo, spesso non ti prendono sul serio: ti vedono come una persona disabile che vuole fare sport, non come un’agonista. Praticare sport ad alto livello richiede strutture adeguate, allenatori, fisioterapisti, mental coach, tutte cose con un costo».

Quali opportunità pensa possa portare l’inclusione del paraclimbing nel programma di Los Angeles 2028?

«È sicuramente un passo avanti. Le categorie selezionate avranno accesso ai corpi sportivi dello Stato (polizia, esercito, fiamme gialle), che offrono sostegno economico e, quindi, la possibilità di essere atleti professionisti. Il fatto è che per le Paralimpiadi di Los Angeles ne sono state scelte solo quattro su dieci e tra queste non c’è la mia. È stata una delusione, ma lo capisco: è anche una questione economica. Nel nuoto, ad esempio, ci sono quattordici categorie, ma è una disciplina più consolidata; per il paraclimbing è solo l’inizio. Magari nelle prossime edizioni ce ne saranno di più».

Quali sono i suoi obiettivi a breve, medio e lungo termine?

«La stagione, benché lunga e faticosa, non è ancora finita: manca la Coppa del Mondo a Laval, in Francia. Poi vedrò come proseguire. Non smetterò mai di arrampicare – questo è certo –, ma l’agonismo è un’altra cosa. Tutto dipende dal supporto che riuscirò a trovare. Ora è il momento di respirare e poi capire dove andare».
Nadia Bredice rappresenta un modo autentico di vivere lo sport: quello di chi si mette in gioco ogni giorno con disciplina, serietà e dedizione. Il suo percorso dimostra che l’agonismo può essere un terreno di crescita personale e di gruppo. Ma ricorda anche che ci sono ancora tante categorie di atleti che, pur dando lustro all’Italia nel mondo, non ricevono adeguato sostegno».