L'intervista

sabato 13 Settembre, 2025

Medici Senza Frontiere, il direttore Di Carlo: «A Gaza attacco ai civili, è genocidio. Aiuti umanitari usati per sparare»

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Trentino d'origine, dal 2021 alla guida della ong in Italia, il biologo analizza il conflitto in Palestina. «In due anni abbiamo curato un milione di persone»

Da 17 anni è in missione per il mondo con Medici senza frontiere, ma forse una situazione come quella di Gaza, Stefano Di Carlo non l’aveva mai vista. «Negli altri conflitti di guerra le persone possono scappare – spiega il direttore generale di Msf Italia – Ma da Gaza non c’è via d’uscita. Questo è terribile, soprattutto perché è un’aggressione in cui l’esercito israeliano ha preso di mira i civili, sia con droni e missili, sia con la fame». Di Carlo è trentino, biologo, ha poi deciso di dedicarsi alle missioni umanitarie entrando in Msf nel 2008. Dopo varie missioni nel mondo, dal 2014 al 2016 si è dedicato ai progetti della ong in Italia, realizzando diversi progetti di assistenza sanitaria e psicologica a migranti, rifugiati e richiedenti asilo, in collaborazione con le autorità sanitarie locali. Dal 2021 è diventato direttore generale di Msf Italia. Lunedì 15 settembre sarà a Trento, alla sala della Cooperazione in via Segantini, assieme all’operatore di Msf Angelo Rusconi ospite dell’evento «Voci da Gaza» organizzato da Sait e Msf e moderato dal «T».

Di Carlo Msf da quanto è impegnata in Palestina?
«Siamo presenti in Palestina da più di vent’anni. In Cisgiordania lavoriamo a Hebron, Nablus e Qalqilya, con progetti di salute primaria e supporto psicologico; a Hebron gestiamo anche una clinica, mentre con le cliniche mobili raggiungiamo comunità particolarmente vulnerabili, spesso sotto attacco dei coloni. A Gaza operiamo da oltre vent’anni. Prima del 2023 ci occupavamo soprattutto di salute mentale, chirurgia specialistica e riabilitazione, perché il sistema sanitario locale era relativamente avanzato rispetto ad altri contesti in cui lavoriamo. Con l’inizio dell’attuale conflitto la situazione è cambiata drasticamente: insicurezza crescente, ospedali distrutti, bisogni enormi. Dal 2023 a oggi abbiamo assistito circa un milione di persone. Oggi ci concentriamo su chirurgia di guerra e trattamento dei feriti da bombe e armi da fuoco, ma affrontiamo anche un’emergenza nuova e gravissima: la malnutrizione, soprattutto infantile, causata dal blocco degli aiuti. Attualmente operiamo all’interno di due ospedali pubblici, il Nasser e l’Al-Aqsa, oltre a ospedali da campo e cliniche di salute primaria, dove vediamo arrivare tantissimi bambini malnutriti».

 

Il primo ospedale di Gaza bombardato da Israele risale al primo mese del conflitto. Allora negarono. Ora sembra invece che i sanitari siano diventati un bersaglio e non lo nascondano nemmeno?
«Assolutamente. Oggi più della metà degli ospedali di Gaza non è più agibile. I sanitari sono diventati obiettivi militari, così come i civili che rappresentano la maggioranza delle vittime di questa guerra. Noi stessi abbiamo perso dodici colleghi e colleghe, e un nostro medico è tuttora detenuto senza accuse a suo carico. I bombardamenti contro strutture sanitarie continuano, e ci sono attacchi diretti ad ambulanze e al personale medico. La sistematicità e la ripetizione di queste azioni dimostrano intenzionalità: gli ospedali, le scuole, le case vengono colpite regolarmente. Un’altra questione gravissima è il controllo degli aiuti: da quando è iniziato il conflitto l’Idf (l’esercito israeliano, ndr) ha chiuso i valichi e ridotto al minimo l’ingresso di beni umanitari. Passa pochissimo: mancano cibo, materiale medico, carburante. Senza benzina non si riesce neanche a purificare l’acqua. Tutti i beni primari vengono meno, e questo è direttamente collegato all’aumento drammatico dei casi di malnutrizione. Molti aspetti mostrano chiaramente un’intenzionalità, così come le evacuazioni forzate. Per questo noi parliamo apertamente di pulizia etnica e genocidio».

 

Siete presenti in tanti conflitti, Gaza è più grave?
«È sempre difficile fare paragoni, ma Gaza è davvero un unicum. Qui l’attacco ai civili è estremamente marcato: la maggior parte delle vittime sono civili palestinesi, moltissime donne, moltissimi bambini e anziani. La differenza rispetto ad altri conflitti è che a Gaza non c’è via di fuga. In Sudan, per esempio, pur nella gravità immensa della situazione, milioni di persone riescono a scappare verso Ciad o Sud Sudan. A Gaza invece no: la popolazione è intrappolata. Israele ordina evacuazioni forzate da una parte all’altra della Striscia, senza offrire alcuna via di salvezza.Il nostro stesso staff è stato costretto a sfollare undici volte: immaginate dover abbandonare tutto ogni due mesi e ricominciare in una zona nuova, senza nulla, con sempre più persone ammassate in spazi sempre più piccoli e sotto la minaccia costante dei bombardamenti. È un ciclo di vulnerabilità progressiva. In queste condizioni anche l’aiuto umanitario diventa difficilissimo: come si fa a evacuare pazienti gravi da un ospedale in queste circostanze? È una posizione di disumanità crescente, una modalità di distruggere lentamente le persone».

 

Con accuse mai corroborate Israele ha estromesso l’Unrwa, l’organizzazione Onu per la Palestina, da Gaza e ora gli aiuti umanitari sono gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation guidata da Israele e Stati Uniti. Questo cosa ha comportato?
«Ha comportato moltissime conseguenze. È stata un’ulteriore strategia per smantellare la risposta umanitaria: togliere il coordinamento all’Onu e trasferirlo a un sistema molto militarizzato, gestito da attori sconosciuti e non indipendenti. Faccio un esempio concreto che abbiamo documentato in un rapporto pubblicato un mese fa. Tra giugno e luglio, in quattro siti di distribuzione protetti da appaltatori americani armati, vicino ai nostri due ospedali nel sud, abbiamo accolto 1.400 feriti e 30 cadaveri, provenivano dai centri di raccolta. I dati medici e le testimonianze dei pazienti parlano chiaro: molti presentavano ferite da arma da fuoco — alle gambe, alla testa, al collo. Non colpi “casuali”, ma colpi mirati. Altri erano rimasti schiacciati o feriti nel panico della folla. I pazienti raccontano di zone sotto pieno controllo militare: filo spinato, cibo scaricato e poi cancelli aperti davanti a persone disperate che correvano per afferrare ciò che potevano. Scene che rendono evidente come questi luoghi siano insicuri e contrari a ogni principio umanitario. C’è poi un secondo punto cruciale: l’imparzialità e l’indipendenza degli aiuti. In questo caso gli aiuti umanitari vengono trasformati in uno strumento di controllo e pressione sulla popolazione civile: esattamente l’opposto di ciò che dovrebbero essere».

 

C’è chi ha contestato il numero delle vittime civili cosa risponde?

«Mi preme ricordare che Msf ha una doppia missione: sanitaria e giornalistica. È nel nostro Dna documentare e raccontare cosa succede quindi siamo molto scrupolosi nella verifica delle fonti. Noi raccogliamo dati ogni giorno sul campo, li incrociamo e li confrontiamo con altre fonti indipendenti: i nostri dati sono molto simili a quelli ufficialmente riportati. Non siamo gli unici a dirlo. Negare questi numeri, di fronte a una tragedia di tali proporzioni, è semplicemente ridicolo. Quello che trovo ancora più disdicevole è il contesto politico che circonda questo conflitto. L’Europa continua a mostrarsi troppo timida: servono posizioni forti, uno stop immediato alla fornitura di armi, e un intervento politico e diplomatico urgente per fermare un’operazione che noi definiamo genocidio e pulizia etnica. Il conflitto non si risolve con l’aiuto umanitario — che resta fondamentale — ma con la responsabilità dei governi, che oggi è enorme e ineludibile».