L'intervista

domenica 26 Ottobre, 2025

Il criminologo Baratto «Cpr? La criminalità si annida nella marginalità, che aumenterà se crescono le persone senza dimora»

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Il coordinatore scientifico di eCrime al Dipartimento trentino di Giurisprudenza riflette sui fattori che generano il senso di insicurezza nella popolazione

«Le problematiche di sicurezza legate all’immigrazione sono legate alla non gestione dell’immigrazione stessa». E il Cpr non rappresenta sicuramente «una soluzione». A dirlo è Gabriele Baratto, docente di Criminologia e coordinatore scientifico di eCrime al Dipartimento trentino di Giurisprudenza, che riflette anche sui molteplici fattori che generano un senso di insicurezza nella popolazione. Potrà sembrare strano, ma questo non è correlato al numero di reati.

Il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) può avere un effetto deterrente?

«Dal punto di vista della criminologia, non ci sono prove che la detenzione di migranti in strutture come i Cpr generi un effetto deterrente significativo. Anzi, il principio secondo il quale la minaccia della reclusione provoca un effetto deterrente è in forte crisi, per usare un eufemismo, anche quando si parla di carcere».

Quali sono i principali fattori di deterrenza in ambito urbano?

«Le evidenze suggeriscono che non basta la severità della sanzione/conseguenza. Anzi, come detto prima possiamo affermare che è quasi ininfluente, ma contano anche altri elementi. Cercando di riassumere, e anche di semplificare, posso dire che ci deve essere un approccio integrale: affrontare le cause del disagio che portano alle manifestazioni di inciviltà; prevenzione di tipo sociale, quindi aumentare la coesione sociale; prevenzione di tipo situazionale, come l’illuminazione, e non lasciare aree della città “non vissute” dalla cittadinanza; certezza della sanzione in caso di violazione. Servono tutte e quattro: se ci affidiamo a solo una di queste sarà quasi impossibili arrivare al risultato, specialmente nel medio-lungo termine. Ora, invece, la tendenza è affrontare tutto nella logica emergenziale, senza una strategia. Ed è sbagliato».

Il protocollo sottoscritto da Provincia e Ministero dell’Interno prevede, a fronte della realizzazione del Cpr, la diminuzione della metà dei posti destinati, in Trentino, all’accoglienza dei richiedenti asilo.

«Parlavo non a caso di mancanza di strategia, di approccio esclusivamente emergenziale. Se si diminuiscono i posti in accoglienza aumenta il numeri di chi non vi accede, aumentando di conseguenza la presenza di migranti in strada in situazioni di marginalità, quella sì terreno potenzialmente criminogeno».

Diminuendo la capacità di risposta in termini di accoglienza, la giunta vorrebbe far diminuire la domanda di richieste di asilo. Fugatti dice di voler incidere su quello che definisce «effetto richiamo».

«Non credo che la domanda di protezione sia guidata dal numero di posti in accoglienza. Non credo nemmeno che i migranti provenienti dalla rotta balcanica sappiano quanta sia la disponibilità nelle strutture. Passano di qui diretti verso l’Austria, la Germania, i Paesi scandinavi, deviati e respinti su altri confini».

Anche questo modo di intendere l’accoglienza è poco strategico?

«L’approccio dovrebbe essere quello dei piccoli numeri distribuiti sul territorio. A livello europeo, italiano e poi locale. Non è un problema solo trentino, ma la tendenza è questa: concentrare i richiedenti asilo in poche zone. Aumentando i problemi gestionali e aumentando anche la percezione di insicurezza. Se invece fossero dieci in Primiero, altri dieci in Val di Non e così via, l’accoglienza sarebbe più facile e i numeri sarebbero infinitesimali rispetto al resto della popolazione. Sarebbe più facile l’inserimento nel mondo del lavoro e l’integrazione…».

Tornando al Cpr, questo può favorire l’incremento del numero di rimpatri?

«Potrebbe sembrare logico pensare che il trasferimento in strutture di detenzione amministrativa possa accelerare la procedura di rimpatrio, o renderla più agevole. Tuttavia la letteratura ci dimostra che spesso in realtà non è così».

Si può dire che la maggior parte dei reati di microcriminalità sono commessi da persone straniere?

«No: questa affermazione non è corretta. Quello che possiamo dire è che, quasi sempre, gli episodi di microcriminalità sono commessi da persone che si trovano in situazioni di marginalità e deprivazione economica e sociale. Le mancanze strutturali di gestione dell’immigrazione di cui parlavo prima comportano che spesso i migranti si trovino in situazioni di irregolarità e, di conseguenza, di marginalità e deprivazione economica e sociale. Legare invece il concetto di criminalità a quello di “straniero” fa passare un messaggio non corretto dal punto di vista dell’evidenza scientifica, andando ad alimentare stereotipi e distorsioni».

Quali sono i principali fattori che generano un senso di insicurezza nella popolazione?

«La produzione del senso di insicurezza dipende da numerosi fattori soggettivi e oggettivi, globali e locali, psicologici e sociali. Prima di tutto posso dire che la ricerca criminologica ha dimostrato che non esiste un legame diretto tra sicurezza oggettiva, ovvero la reale presenza di reati in un determinato territorio, e soggettiva, quindi la percezione di insicurezza».