Lo studio

domenica 7 Dicembre, 2025

Dai Filzi al Sessantotto: il viaggio nel dissenso di Fabrizio Rasera. «La storia come responsabilità civile»

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Il roveretano ha partecipato all’ultimo libro edito dal Museo della Guerra sui fratelli Filzi

Porta avanti la ricerca storica per le maggiori istituzioni trentine, ha curato diari di guerra e di prigionia, firmato un’infinità di articoli, pubblicando libri e fondando con altri l’Archivio trentino della scrittura popolare. Fabrizio Rasera, classe 1948, laurea in Lettere all’Università di Firenze, è cofondatore di “Materiali di Lavoro”, bellissima rivista di studi storici d’ampio respiro, pubblicata dal 1978 al 1993. Ha collaborato con il Museo della Guerra di Rovereto e con il Museo del Risorgimento di Trento (poi Museo Storico del Trentino). È stato a lungo redattore di “Questotrentino”. Consigliere per cinque mandati nel Comune di Rovereto, più volte assessore alla Cultura, dal 2010 al 2018 presidente dell’Accademia degli Agiati. Soprattutto è bella testa pensante, voce libera, abile nel contraddittorio perché umanamente vero, con la vocazione a connettere più che a disgiungere, a problematizzare più che a censurare, il che nella vita può anche irritare il mediocre. Sta di fatto che da sempre gli interessano più le persone e la verità che le narrazioni dietro cui ci si nasconde sovente. Stranamente sminuisce i propri talenti, pensa di avere “dissipato occasioni”, eppure è capace di autodisciplina feroce e riconosce la fortuna d’essersi formato entro valori etico-sociali che gli permettono ancora di mantenere la rotta senza grandi smarrimenti.

Professore, lei ha partecipato alla gestazione dell’ultimo testo sfornato dal Museo della Guerra, “I Filzi – Storia, immagini, documenti”, di Nicola Fontana e Mirko Saltori. Un libro biografico “purgato dalle cianfrusaglie”, come ha detto Saltori.
«Sì, ho partecipato alla sua elaborazione, condividendo la necessità di una rilettura filologica: la celebrazione delle figure eroiche deposita inevitabilmente incrostazioni tenaci e difficili da rimuovere. Impegnarsi a restaurare le biografie alla luce dei documenti non significa cercare la dissacrazione, al contrario consente di riscoprire lo spessore dei personaggi studiati, In questo libro accade così, mi sembra».

Emerge la cruda realtà di una famiglia medioborghese con qualche difficoltà pedagogica interna, nonostante “la serena fermezza del padre” Giovan Battista.
«Quei quattro vivacissimi figli di Filzi e dell’istriana Amelia Ivancich crebbero in un’epoca di forti trasformazioni. Il primogenito Mario era un intellettuale anticonformista, oltre che studioso di linguistica di una certa originalità, come argomenta nel volume Serenella Baggio. Ezio e Fausto furono giovani esistenzialmente ribelli. Particolarmente estroso era Fausto, personaggio picaresco, trasgressivo, allegro cultore di Bacco e di Venere. I racconti di imprese erotiche che escono dal suo epistolario fanno pensare a un giovane Casanova. Emigrato in Argentina anche per tenersi lontano dai guai, partì per l’Italia dopo la tragedia del fratello, andando a combattere con la consapevolezza e forse la volontà di procedere verso la morte. Le sue lettere alla fidanzata di Fabio, Emma Chiusole, sono un documento di grande suggestione. Dei quattro il più razionale appare proprio Fabio, il futuro “martire”. Giovane intellettuale di orientamento democratico, patriota appassionato ma non fanatico: i documenti biografici emersi ci restituiscono l’immagine di un giovane uomo che conosce il dubbio doloroso sul destino suo e della sua generazione».

E la madre Amelia Ivancich?
«Negli anni del fascismo quella madre vestita di nero, presente in tante cerimonie commemorative, diventerà una figura sacrale. Amelia era apertamente fascista e si prestò ad essere la prestigiosa madrina di manifestazioni reducistiche e di partito. Ma l’immagine che traspare dalle lettere familiari è più ricca della sua rappresentazione pubblica. È una madre amorosa, capace di mediare rispetto al rigore del marito, e fin qui siamo dentro un modello tradizionale, interpretato però con una cordialità toccante. Le sue lettere a Fausto raccontano la città, mettono in scena i coetanei dei figli che partono per il fronte orientale o che tornano feriti… La sua lingua ha una libertà “popolare”. Di lei e della sua formazione in Istria, del suo “prima”, sappiamo però poco e altrettanto si può dire dell’altro personaggio femminile di questa vicenda, Emma, la fidanzata di Fabio. Sarebbe importante trovare altre lettere, oltre a quelle conosciute, per documentare quella dimensione privata che consentirebbe di approfondire l’umanità di personaggi la cui risonanza pubblica è stata enorme».

L’immagine di Fabio Filzi dubbioso, “purgatoriale”, sconcerta chi lo pensa come uno spregiudicato megalomane che ha portato dritti dritti, dentro la guerra.
«All’avvicinarsi della guerra europea, in quell’estate del 1914, Fabio è rappresentato nel diario di Enrica Sant’Ambrogio Piscel come un uomo sconvolto da “l’infinita catena di orrori” che essa porterà. È una testimonianza vivissima che ne mette in luce la particolare modernità».

Lei ha vissuto in pieno la stagione delle contestazioni; che tipo di sessantottino era?
«Mi propone un salto pericoloso dalla grande storia all’autobiografia di una vita senza escursioni straordinarie né vette estreme. Le rispondo sintetizzando in qualche battuta la mia scoperta della politica tra Firenze (dove cominciai a frequentare l’Università proprio nel ’67-68) e Rovereto. In quel momento vivevo una crisi del cristianesimo comunitario che mi aveva animato negli anni del liceo. La conversione a un laico comunismo non è avvenuta senza contraddizioni. Contestavo la scuola nella quale mi realizzavo, che odiavo e amavo a un tempo. Questo sentirmi “dentro e fuori” ha caratterizzato un ampio tratto della mia vita. A 22 anni insegnavo e anche in quel ruolo sentivo con animo diviso. Volevo onorare la missione di quel difficile mestiere, ma esercitandola in coerenza con il nuovo me stesso e con le idee che professavo. Ho vissuto la prima parte della mia esperienza politica in una sinistra che si voleva rivoluzionaria, avversando però ogni tentazione di uso politico della violenza».

Che origini ha la sua famiglia e come reagì al figlio contestatore?
«Mio padre Aurelio era di origine veneta, figlio di ferroviere. Tornato da un’esperienza di guerra pesantissima (la ritirata di Russia, la prigionia in Germania) intraprese poco più che ventenne un’attività di rappresentante di tessuti che non ebbe fortuna, seguirono disoccupazione, sostanziale miseria, una serie di malattie e la morte, a poco più di cinquant’anni. Con lui, conversatore brillante e ostico, ho molto discusso, ma nei fatti aveva una naturale inclinazione liberale, così ha sempre rispettato ogni mia scelta. Altrettanto rispetto e un amore senza limiti aveva per me mia madre Lidia Belloni (anche lei veneta, di Sant’Antonio del Pasubio). L’accettazione delle mie scelte me la meritavo anche con l’impegno, però: ero uno studente gratificato da bei voti e borse di studio, e i miei primi stipendi hanno portato in casa anche i primi elettrodomestici».