L'intervista

lunedì 29 Maggio, 2023

Bill De Blasio, l’ex sindaco di New York a Trento: «La globalizzazione è finita, Europa e Usa facciano gioco di squadra come il Napoli»

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È stato uno degli ospiti più in vista dell'edizione appena conclusa del Festival dell'Economia. E l'ex numero 1 della Grande Mela non ha deluso regalando un panel ricco di spunti

Forse ora come ora vorrebbe essere conosciuto solo come il tifoso numero uno del Napoli. Una passione che risale a suo nonno originario di Sant’Agata dei Goti in provincia di Benevento, ma Bill de Blasio è anche uno dei più importanti ospiti della nuova edizione del festival dell’Economia. Ex sindaco di New York, candidato alle primarie dei democratici e uomo di punta del partito, è stato l’ospite d’onore a Trento venerdì 26 maggio alle 10 in Sala Depero per prendere parte al dibattito «Città in trasformazione». Proprio la sua esperienza da sindaco della Grande Mela, in cui ha dovuto anche affrontare la pandemia, lo ha reso una delle persone più adatte a cogliere i cambiamenti in vista per la nostra società.
Bill de Blasio quali sono le sfide più importanti del presente per le città?
«Se mi avesse fatto questa domanda un anno fa le avrei risposto il cambiamento climatico. Ma ora penso che sia l’intelligenza artificiale e l’impatto che avrà sulle nostre vite, il nostro lavoro e la nostra libertà. Non è un problema che uno collegherebbe subito allo spazio urbano, ma penso che le città ricopriranno un ruolo importante nel creare i confini su come utilizziamo le intelligenze artificiali e come ne mitighiamo l’impatto. Ci sono le potenzialità di fare bene ma anche il rischio di effetti devastanti».
Cosa la preoccupa di più?
«Nel breve termine il fatto che milioni di persone rischiano di essere senza un lavoro, senza avere una rete di supporto. L’idea che il lavoro possa essere sostituito con una sorta di reddito di base statale credo sia sbagliata. Dubito possa succedere abbastanza in fretta e che sia un rimpiazzo auspicabile. Questa è la sfida dei prossimi anni. Guardando più avanti la domanda che ci dobbiamo porre è chi controlla l’intelligenza artificiale, noi? Essa stessa? Le aziende che la sviluppano? Non sono un nichilista, ma penso che dobbiamo renderci conto che il settore va regolamentato».
Ci sono anche potenzialità?
«Ma certo a cominciare dalla salute che dopo la pandemia ci siamo resi conto è un aspetto sempre più fondamentale. Lì l’intelligenza artificiale può avere grandi applicazioni. Diciamo che nel mondo ideale dovremmo mettere in campo delle regole che ci garantiscano che le Ai lavorano per noi e non il contrario. Per il popolo e non per le corporazioni. Solo così ne trarremo il meglio».
Lei è stato sindaco di New York durante la pandemia, quali sono state le sfide più grandi? Quali lezioni abbiamo imparato?
La sfida più grande all’inizio era la mancanza di informazioni e di conoscenza scientifica. Il governo federale non ci ha fornito tamponi sufficienti, non avevamo abbastanza letti per la terapia intensiva o i ventilatori. Prendemmo la scelta di chiudere tutto, non fu facile ma evitammo il peggio. Abbiamo imparato l’importanza dell’autosufficienza. I vaccini e la velocità di immunizzazione hanno fatto sì che New York passasse da epicentro americano della pandemia a uno dei posti più sicuri in poco tempo. Credo che la grande lezione sia che dobbiamo prepararci per le crisi del futuro. L’America, e l’occidente in generale, non può dipendere dalla Cina per le proprie scorte mediche, dobbiamo reindustrializzare i nostri Paesi creare una catena di approvvigionamento interna e farci trovare pronti, riconoscendo i segnali che l’ultima volta abbiamo ignorato o non siamo stati in grado di riconoscere. Un discorso che va oltre il solo campo medico».
Uno dei temi del festival è fare i conti con la crisi della globalizzazione dopo la pandemia. Stiamo andando verso una restaurazione del sistema precedente? O a un ordine multipolare con un mercato su scala ridotta rispetto a quello precedente?
«Penso che ora abbiamo compreso profondamente i limiti della globalizzazione. In ogni senso, quelli fisici, con i problemi sulla catena di approvvigionamento mondiale, quelli politici, vista la dipendenza da Paesi instabili o autocratici. La globalizzazione è stata pensata male fin dal principio. Era una politica spinta dagli interessi delle multinazionali. Ci sono stati alcuni aspetti positivi, ma molti di più negativi. I problemi ora si sono resi drasticamente evidenti. Credo che dobbiamo ribilanciare l’equazione. Non possiamo de-globalizzare il mondo ma possiamo tornare a un punto di equilibrio a metà tra il vecchio sistema e il futuro verso il quale ci voleva portare la globalizzazione. Già i movimenti di liberazione degli anni ’60 e ’70 lanciavano l’allarme sugli effetti della globalizzazione. Credo che dovremo recuperare alcuni dei pensieri di quel periodo e tornare a essere meno dipendenti dall’emisfero orientale. Tornare a produrre in Europa e in America. Credo che non sia affatto una sfida impossibile. E questo può avere effetti positivi anche sull’occupazione».
Cosa ne pensa dei rapporti tra Usa e Europa da una parte e Russia e Cina dall’altra anche alla luce delle guerra in Ucraina?
«Vedo per entrambe le coppie legami più stretti e credo che questa non sia una buona notizia per la Cina. Credo che la guerra e la pandemia hanno sancito la fine della globalizzazione. Credo che il legame tra Stati Uniti e Europa è una buona notizia per la democrazia e per creare il gruppo più resistente contro i regimi autoritari. Non sarà facile ma la strada della deglobalizzazione è quella da perseguire. Dobbiamo unirci tutti come una sola squadra e superare le avversità, un po’ come ha fatto il Napoli quest’anno».
L’anno prossimo negli Stati Uniti ci saranno le elezioni presidenziali. Qual è lo stato di salute della democrazia americana? E cosa ci dice il fatto che a sfidarsi saranno ancora due ottantenni, Biden e Trump?
«Le risponderei citando Mark Twain che riguardo le voci che lo volevano morto rispose: “Le notizie della mia dipartita sono molto esagerate”. Allo stesso modo è stato fatto troppo presto il funerale alla democrazia americana. Siamo passati attraverso lo shock dell’elezione di Trump. Quell’elezione la potevamo vincere noi democratici. La prima cosa da riconoscere è che non era inevitabile, lo dimostra la vittoria con 6 milioni di voti di vantaggio di Joe Biden. Dopo Trump abbiamo avuto 3 tornare elettorali in cui le persone hanno scelto la moderazione contro l’estremismo dei repubblicani. Penso che siano importanti i processi che in questo momento stanno dimostrando che coloro che hanno infranto la legge non sono al di sopra di essa. La scelta dell’estremismo limiterà il partito repubblicano. Per quel che riguarda l’età, penso che la società sia cambiata profondamente. Quello che credevamo fosse vecchio semplicemente non lo è più. Biden, Nancy Pelosi, Bernie Sanders, Chuck Shumer. Tutti loro sono vigorosi e rigorosi nel loro impegno politico. Credo che sia simbolicamente un problema, ma credo anche che Biden abbia raggiunto risultati che in America non si vedevano da 60 anni e quindi che importa se lo fa un ottantenne?».