L'intervista

domenica 23 Novembre, 2025

L’economista Enrico Sassoon martedì a Trento: «La leadership sta cambiando con ispirazione, cura, relazione»

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Sarà al convegno di Fondimpresa. «Riaffiora la tentazione autoritaria incarnata da figure come Donald Trump o da leader che propongono visioni accentratrici, poco inclini alla valorizzazione della diversità»

Il concetto di leadership sta vivendo una trasformazione radicale, accelerata da tecnologia, innovazione sociale e cambiamenti culturali profondi. Le nuove generazioni interpretano il lavoro e la carriera con sensibilità inedite, mentre il mondo produttivo si interroga su come guidare organizzazioni sempre più complesse. Ne abbiamo parlato con Enrico Sassoon, economista, editorialista, direttore responsabile Harvard Business Review Italia nonché autore e curatore del volume «Leadership». Sassoon sarà martedì a Trento al convegno di Fondimpresa, in un dibattito moderato dalla giornalista de Il T Denise Rocca.

Dottor Sassoon, partiamo dalle nuove generazioni. Come vedono oggi carriera e leadership?
«Le nuove generazioni vivono il tema della carriera in un modo nettamente diverso rispetto alle generazioni precedenti. Per i baby boomer e per buona parte della Generazione X, la retribuzione era l’elemento cardine: il benessere coincideva con il guadagno. Oggi l’aspetto economico resta importante, ma non è più sufficiente. I giovani attribuiscono grande valore ai temi identitari e valoriali: la direzione dell’azienda, il contributo personale che possono dare, il livello di autonomia concesso, il posizionamento dell’organizzazione di fronte ai temi della sostenibilità, delle disuguaglianze, della diversity, in particolare quella di genere. Non è una sostituzione dei criteri tradizionali: è un’integrazione. Lo stipendio rimane un pilastro, ma accanto a esso si collocano valori nuovi, spesso percepiti come ancora più importanti».
La formazione resta un acceleratore credibile di leadership?
«Non solo: è indispensabile, e oggi è praticata molto meno di quanto si dovrebbe. Le persone competenti sono necessarie in qualsiasi organizzazione, e questo è un principio permanente. Ma sta cambiando la struttura stessa della vita professionale: quel modello rigido in tre fasi – si studia, poi si lavora, poi si va in pensione – non esiste più. L’innovazione tecnologica e l’intelligenza artificiale stanno accorciando i cicli di conoscenza, rendendo superate le competenze in tempi rapidissimi. Diventa quindi necessario tornare periodicamente alla formazione: due, tre, quattro volte nell’arco della vita. È un processo ricorrente, che riguarda sia i giovani sia chi ha più esperienza. Ed è fondamentale affrontarlo con consapevolezza, perché l’allungamento della vita lavorativa rende questo tema ancora più centrale».
Lei distingue tra competenze verticali e orizzontali. In che modo questi due modelli di carriera impattano sulla leadership?
«Le competenze verticali riguardano la preparazione tecnica: devono essere profonde, aggiornate e in continua evoluzione. Non esiste leadership senza competenza. Le competenze orizzontali, invece, sono le soft skills: capacità relazionali, ascolto, empatia, visione sistemica. La leadership sta cambiando soprattutto qui. Il leader solitario, autoritario, che impartiva ordini dall’alto, non funziona più. Oggi serve qualcuno capace di creare e coordinare team, ascoltare i collaboratori, coinvolgerli, motivarli. Una leadership ispirativa, capace di relazione, fondata sulla cura delle persone: questa è la vera svolta contemporanea».
Molte di queste soft skills sono percepite come femminili. Perché, applicate a una donna, appaiono come debolezze, mentre negli uomini sembrano innovazioni?
«È una lettura possibile. Oggi la crescente presenza delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto in ruoli dirigenziali, non rappresenta solo il riconoscimento di competenze specifiche, ma un avanzamento della nostra civiltà democratica. Le qualità che spesso associamo al femminile come gentilezza unita a fermezza, creatività, capacità di visione, attitudine alla collaborazione, sono preziose e devono essere interiorizzate anche dagli uomini. Capita che vengano lette come debolezze quando appartengono a una donna e come innovazioni quando un uomo le fa proprie. È un bias culturale. Ma, guardando ai dati, le cose stanno cambiando: nei consigli di amministrazione, oggi, la presenza femminile sfiora un terzo, mentre dieci anni fa era quasi nulla. È una trasformazione lenta, ma irreversibile».
Qual è stata, secondo lei, la leva più potente che ha accelerato questa trasformazione? La tecnologia? La cultura? La geopolitica?
«Tutti questi fattori si intrecciano. La complessità globale è aumentata enormemente: la geopolitica, le crisi ricorrenti e prolungate, la rapidità con cui mutano sistemi economici e sociali. Le idee e i valori cambiano con grande velocità, soprattutto tra i più giovani. La tecnologia, e in modo particolare l’intelligenza artificiale, è l’elemento più dirompente. Ridisegna organizzazioni, professioni, competenze e, inevitabilmente, forme di leadership. La pressione innovativa riguarda tutte le generazioni: non solo i più giovani. Anzi, spesso sono proprio le generazioni mature a dover compiere lo sforzo maggiore per restare al passo».
C’è però chi esalta ancora una leadership autoritaria. Perché?
«Viviamo una fase di cambiamento senza precedenti sul piano tecnologico, culturale e geopolitico, e queste trasformazioni generano inevitabilmente ansia. È in questo clima che riaffiora la tentazione autoritaria, incarnata da figure come Donald Trump o da leader che propongono visioni accentratrici, poco inclini alla valorizzazione della diversità. Ma questo fenomeno riguarda soprattutto la politica, non il mondo economico. Le imprese non possono permettersi approcci di breve periodo: guidare un’organizzazione complessa richiede collaborazione, ascolto, rispetto delle persone e della loro pluralità. La politica, invece, spesso opera inseguendo il consenso immediato. Da qui nasce lo scollamento. E aggiungo: a fronte di dinamiche globali così complesse, la presenza di veri statisti, nel senso più alto del termine, si fa oggi sempre più rara».