La storia

mercoledì 19 Novembre, 2025

Patagonia 1976, l’avventura impossibile dei Ciamorces rivive in un docufilm: «Non arrivammo in cima, ma ci siamo scoperti un gruppo»

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Tra gelo, corde ghiacciate e 2.500 chilometri di sterrato, tredici alpinisti fassani tentarono l’ascesa alla Torre Egger. Cinquant’anni dopo, i protagonisti raccontano la spedizione che unì un’intera valle e segnò una generazione di montanari

Il cinema Marmolada di Canazei quantomai gremito, il 14 novembre, ha accolto tra gli applausi «Patagonia 1976. Spedizion de Ciamorces e Menacrepes de Fascia», il docufilm che ricostruisce la prima epica spedizione del celebre gruppo di alpinisti fassani. I Ciamorces, allora, avevano come obbiettivo l’ascesa alla Torre Egger (2685 metri), considerata la montagna più difficile del Campo di ghiaccio Patagonico Sud, in una regione decisamente ostile tra Argentina e Cile.
Alla presentazione del docufilm – realizzato con materiale video-fotografico di Almo Giambisi, primo presidente dei Ciamorces de Fasha, la regia e le interviste di Fulvio De Martin Pinter e il coordinamento di Angela Pederiva del Comun General de Fascia che ha finanziato il progetto – venerdì sera c’erano alcuni protagonisti dell’avventura, tra cui Almo Giambisi, Gino Battisti, Lodovico Vaia e Alfredo Weiss, che all’epoca aveva contribuito significativamente all’organizzazione con la collaborazione di Assunta Merli e Fausta Pollam.
Assieme ai tre alpinisti in sala, si erano recati in Patagonia: Ivo Nemela, Carlo Platter, Ettore Rasom e, gli oggi scomparsi, Aldo Gross, Adolfo Lorenz, Beppino Vian, Cesare Franceschetti, Corrado Riz, Lino Trottner, Luciano Ploner, Renzo Favè, Silvio Riz e Tita Weiss. Con loro, anche il medico Carlo Romanese e il cineoperatore Ernst Pertel (che aveva realizzato un filmato per la Rai). «Nel 1969 – racconta Giambisi – assieme a Carlo Platter avevo costituito i Ciamorces. L’idea della spedizione è nata poco dopo e, finalmente, nel 1976 siamo partiti grazie ad Alfredo Weiss, che ci ha dato una grossa mano a reperire risorse, attrezzature e cibo. Per me l’amicizia e la condivisione in montagna sono sempre state importanti e anche se non siamo riusciti a raggiungere la cima della Torre Egger, per il meteo sfavorevole e il poco tempo a disposizione (sarebbero serviti almeno due mesi per trovare la finestra di bel tempo adatta all’impresa), è stata un’esperienza determinante per la coesione del gruppo e per quelli di noi che, poi, hanno compiuto spedizioni in Himalaya e su altre cime del mondo».
Il 19 ottobre 1976 a Campitello, tantissimi fassani avevano salutato gli alpinisti in partenza. Raggiungere la Patagonia, cinquant’anni fa, non era stato facile. Tutto il gruppo aveva viaggiato in aereo da Venezia a Buenos Aires, poi la maggior parte aveva preso un altro volo per Calafate in Patagonia, dove ad accoglierli c’erano temperature rigidissime e vento sferzante. Almo, Aldo ed Ernst, invece, avevano viaggiato a bordo di un camion con un bilico di 12 metri, dov’erano stati caricati attrezzatura alpinistica, abbigliamento e alimenti. «Le qualità alpinistiche dei partecipanti erano note. L’obiettivo della spedizione era valorizzare il gruppo e, di conseguenza, tutta la valle. Così quando, per sostenere l’impresa, mi rivolsi ai Comuni e a diverse aziende, trovai subito supporto», spiega Weiss.
Da Calafate, con il camion e alcuni furgoncini, il gruppo aveva affrontato oltre 2500 chilometri di strada sterrata, attraverso un territorio disabitato. Una volta arrivati nel luogo del primo campo base, gli alpinisti avevano trovato vegetazione spinosa, pioggia battente e vento fortissimo che la notte li teneva svegli e strappava le tende. Con l’avvicinamento alla vetta, il terzo campo – il più alto – era stato allestito in un crepaccio: c’era una tale umidità che gli abiti erano sempre bagnati. Anche i tentativi di salita alla Torre Egger si erano rivelati complicati: per l’umidità e il vento si ghiacciavano le corde, rendendo rischiosissima l’ascesa degli alpinisti.
Alla decisione di abbandonare l’impresa, a oltre un mese dalla partenza e dopo diverse settimane alla base della Torre Egger, c’era stato chi aveva versato qualche lacrima: in quella avventura ci avevano creduto tutti. Gino Battisti, Tita Weiss, Aldo Gross e Ivo Nemela avevano provato più e più volte l’ascesa. «Avevo 26 anni e volevo arrivare in cima alla Egger. Purtroppo, come gli altri, mi sono dovuto arrendere a mani insensibili per il gelo e corde ghiacciate», spiega Nemela nel docufilm. «È dispiaciuto anche a me – ha detto di fronte al pubblico Lodovico Vaia – purtroppo siamo andati nel periodo sbagliato. L’ideale sarebbe stato tra febbraio e marzo, ma nessuno di noi si poteva permettere di saltare quasi due mesi di lavoro come maestro di sci o guida alpina».
Intanto, le famiglie che li aspettavano a casa avevano vissuto settimane d’ansia. «Le mogli mi chiedevano spesso notizie – sottolinea Weiss – così quando rientrarono, parenti e amici andarono ad accoglierli all’aeroporto».
Alla prima del docufilm c’erano anche Dante Colli, storico dell’alpinismo, e naturalmente Ivan Vian, l’attuale presidente dei Ciamorces de Fasha, che ha ringraziato i protagonisti di “Patagonia 1976” e gli oltre ottanta membri del gruppo che, da Penia a Moena, promuovono e tramandano i valori delle genti di montagna. Ai Ciamorces presenti in sala è stata consegnata una copia del filmato (che dal 16 novembre si può vedere sul canale Youtube di Tivù Ladina), mentre Edoardo Felicetti, procurador del Comun General de Fascia, dopo essersi complimentato per la pellicola e l’importante ruolo dei Ciamorces per la valle ladina, ha donato un riconoscimento a tutto gruppo.