l'editoriale
martedì 28 Ottobre, 2025
Ranucci e l’attacco alla stampa
di Paolo Morando
La vicenda va inquadrata in un clima di costante intimidazione nei confronti della stampa. Tanto che il ministro dell’interno Piantedosi, riferendo alla Camera, ha parlato di ben 718 episodi ai danni di giornalisti, con un picco nel 2021
Intanto i fatti. E quindi la bomba di fattura rudimentale esplosa a sera, la settimana scorsa, davanti all’abitazione del giornalista Sigfrido Ranucci, a Campo Ascolano (frazione di Pomezia), che ha distrutto due sue autovetture. Ma che avrebbe anche potuto ferire, o peggio, una sua figlia appena rincasata. E pure lo stesso Ranucci: «Il fatto che l’attentatore avesse aspettato quel momento dopo 40 minuti che ero rientrato – ha spiegato – e che avesse posto la bomba proprio dove io passo, significa che conosce le mie abitudini e ci dà il senso che può colpire in qualsiasi momento». E in effetti gli inquirenti ritengono certa la circostanza che Ranucci fosse seguito da giorni: chi ha collocato l’esplosivo, dunque, avrebbe atteso che la scorta lo lasciasse e si allontanasse prima di piazzare l’ordigno con la miccia a mano.
Le indagini, condotte dai carabinieri di Roma e Frascati, per quel che se ne sa si muovono giocoforza a 360 gradi, con un fascicolo aperto dalla Procura di Roma (Direzione distrettuale antimafia) per danneggiamento con l’aggravante del metodo mafioso, alla ricerca di quale possa essere stata la molla scatenante dell’attentato. Si presume che il movente sia legato agli approfondimenti di «Report», la trasmissione condotta da Ranucci su Raitre, le cui nuove puntate, come annunciato pochi giorni fa dallo stesso giornalista, riguarderanno sanità, scuola e ricerca, ma anche il settore dell’eolico, in particolare nel Nordest (con annessi interessi della ‘Ndrangheta) e, parole sue, «come girano le cose nel mondo della cultura e dei finanziamenti». E tutto questo al netto di inchieste ancora inedite o ulteriori sviluppi di altre già andate in onda: ad esempio sul porto crocieristico di Fiumicino o sulla categoria dei balneari, quest’ultimo un tema caro non solo a «Report».
L’ultima pista spuntata, sempre legata all’attività giornalistica di «Report», è quella albanese, con movente riconducibile alla puntata del 21 aprile 2024: un servizio intitolato «(Hot) Spot albanese», sul progetto dei centri per migranti che l’Italia ha realizzato in Albania, nell’ambito dell’accordo siglato tra i governi di Roma e Tirana. In quel servizio, compare più volte il nome di un narcotrafficante di rilievo, collocato in un contesto di relazioni e affari che toccano ambienti politici e istituzionali sia albanesi sia italiani. E già lo scorso 9 luglio due proiettili inesplosi erano stati trovati vicino all’abitazione di Ranucci, a indicare una continua minaccia.
Sia come sia, e pur senza poter escludere la possibilità di una banale guerra tra clan della zona (da un paio d’anni, tra Pomezia, Ardea, Ostia e dintorni le esplosioni artigianali sono una costante), la vicenda va inquadrata in un clima di costante intimidazione nei confronti della stampa. Tanto che il ministro dell’interno Piantedosi, riferendo alla Camera, ha parlato di ben 718 episodi ai danni di giornalisti, con un picco nel 2021. E solo nei primi sei mesi di quest’anno se ne sono contati 81, dei quali 31 sul web.
Dopo i fatti, le reazioni. Che, ritualmente, sono state di unanime preoccupazione, indignazione, ripulsa. Anche da parte di coloro i quali, da anni, sommergono «Report» di querele: a partire da quegli ambienti di governo da sempre mai teneri (eufemismo) nei confronti del giornalismo. Il quale è sinonimo di informazione critica. E quest’ultimo aggettivo sarebbe di per sé pleonastico: quale informazione giornalistica, se non critica, può dirsi davvero tale? Lo sa bene un uomo della destra dura e pura come Francesco Storace, giornalista prima ancora di diventare politico, che proprio ai politici ha lanciato la proposta di una solidarietà vera a Ranucci: che ritirino le querele nei suoi confronti. Ovviamente con zero risultati.
A schierarsi come un sol uomo a fianco di Ranucci sono stati soprattutto quelli del Movimento 5 Stelle, e con essi quella corrente di opinione che fa capo al «Fatto Quotidiano». Agli ex grillini, come minimo, la memoria un po’ difetta: non è poi passato troppo tempo da quando, e per anni, vomitavano insulti sulla categoria degli operatori dell’informazione, «pennivendoli» da sottoporre al giudizio di tribunali popolari. Ma avere il coraggio di cambiare idea è spesso indice di maturazione, quindi va bene anche così.
Che «Report» sia diventato il simbolo della libera informazione, di quella che non guarda in faccia a nessuno, è però un segno dei nostri tempi grami. L’esperienza standard di un telespettatore del programma condotto da Ranucci è infatti, grosso modo, sempre la stessa: stupefazione, scandalo e rabbia, con il corollario di frasi del tipo «sono tutti uguali» verso la parte politica sotto i riflettori di questa o quella puntata. Salvo però quando l’oggetto del programma è costituito da materia che il telespettatore conosce davvero bene, anche meglio dei giornalisti autori del servizio. E in quel caso stupefazione e scandalo sono paradossalmente i medesimi, mentre alla rabbia subentra la frustrazione nel vedere sprecata l’occasione (in prima serata e dal servizio pubblico) per fare chiarezza su temi che finalmente lo meriterebbero. Per non parlare delle interviste sapientemente rimontate, e dell’uso di testimoni anonimi e travisati. Ma questa è ormai prassi ben nota (e non solo di «Report»).
In questo senso, alcune puntate che più hanno fatto discutere sono quelle che hanno riguardato vicende da sempre rubricate come «indicibili»: il caso Moro, le stragi targate Cosa Nostra (e l’immancabile coinvolgimento della destra eversiva), ultimamente le polemiche sui lavori della Commissione parlamentare antimafia. Polemiche che stanno riguardando l’ex procuratore di Palermo Roberto Scarpinato, da quando è in pensione senatore proprio del M5S, per una velenosa vicenda di conflitto d’interessi. Tutto ruota attorno all’inchiesta mafia-appalti, da più parti indicata come principale causa del delitto Borsellino. Circostanza negata da Scarpinato (sostanzialmente spalleggiato da «Report»), che da sempre invece sostiene, ieri da magistrato e oggi da parlamentare, la pista politica della trattativa tra Stato e Cosa Nostra, peraltro già ripetutamente negata in sede giudiziaria. In mezzo, l’immancabile ex generale dei Ros Mario Mori, puntualmente rappresentato come Belzebù dal programma di Ranucci.
Proprio Ranucci, elencando in questi giorni le tante minacce ricevute, ha fatto riferimento appunto alle inchieste di «Report» sul caso Moro, su stragi e delitti di mafia e sui collegamenti tra massoneria, servizi segreti «deviati» e destra eversiva. E chissà. Perché in Italia, da sempre, su questi temi la realtà supera regolarmente l’immaginazione. Ma proprio perché siamo in Italia, e in tempi di complottismi galoppanti, non si può neppure escludere che l’immaginazione superi la realtà.
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