Tribunale

domenica 26 Ottobre, 2025

La figlia denuncia: «Papà mi picchia». Ma lui viene assolto. «Erano scappellotti simbolici»

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La 18enne finita in struttura protetta. Operaio scagionato. «I rimproveri perché voleva lasciare la scuola
e stava ore al cellulare»

Metti una figlia adolescente ribelle, poca voglia di studiare, ore ed ore sul cellulare e dubbi ragazzi frequentati all’insaputa dei suoi. Un giorno, per il tramite di un amico, fa intervenire la polizia a casa, e racconta in lacrime di sentirsi in prigione da anni, e di essere stata sgridata e picchiata ancora una volta dal padre: a suo dire nessuna spiegazione o possibilità di confronto ma solo violenza da parte del genitore che — la sua versione — la costringeva a sottostare alle regole della loro cultura indiana e in un’occasione l’aveva pure colpita con una mazza da cricket di plastica e minacciata di morte. Allora la denuncia della giovane, 18 anni, aveva fatto scattare la procedura di «codice rosso» prevista per la violenza domestica e di genere. Lei era stata accolta in una struttura protetta, con l’intervento dei servizi sociali, mentre il padre si era ritrovato indagato per maltrattamenti in famiglia aggravati, durati 5 anni (per l’accusa da quando la figlia aveva 13 anni) e consumati anche davanti agli altri figli minori, con il rischio di una pesante condanna, da 3 a 11 anni. Condanna alla fine comunque scongiurata visto che la vicenda processuale si è chiusa con un’assoluzione.

Testimonianze e prove

La stessa primogenita si era addirittura costituita parte civile per chiedere un risarcimento, per la disperazione dei genitori, coscienti di aver perso la loro amata figlia, incapaci di comprendere come fosse arrivata a tanto, coscienti di come l’avevano cresciuta. Determinanti sono state le indagini difensive: hanno fatto emergere uno spaccato diverso da quello rappresentato dalla presunta parte offesa. Hanno smentito che la famiglia dovesse scegliere il fidanzato per la primogenita, provato che i lividi che si era fotografata con il cellulare se li era fatti giocando con il fratello, che, ancora, scappellotti e sculaccioni assestati erano «simbolici», come ammesso anche dalla madre. Questa ha spiegato come i rimproveri fossero dovuti al fatto che la ragazza non studiava e voleva lasciare la scuola, e inoltre stava fino a tarda sera al cellulare. «Se ci siamo arrabbiati con lei è stato per il suo bene, per farle capire cosa fosse meglio per lei. E la sculacciata che ha preso ad esempio quando si è arrampicata sull’armadio da piccola era solo per farle capire che era pericoloso, insomma per scopi educativi» le parole della mamma, sentita dal giudice. Anche i vicini avevano riferito di un clima sereno in casa, di un padre «buono e premuroso», di «gesti di reciproco affetto» tra papà e figlia. Testimonianze, prove, che hanno permesso all’operaio 50enne di scrollarsi di dosso ogni accusa. «Non ho mai fatto male a mia figlia, mai una parolaccia o insulto. Quando era piccola forse è volato qualche sculaccione e scappellotto: nulla di lesivo o di umiliante, solo un gesto per mettere un punto fermo» ha confessato, genuino, l’imputato. Già la Procura aveva riqualificato l’ipotesi di maltrattamenti in semplici lesioni o percosse visto che non c’era prova delle vessazioni. Per il giudice non c’erano nemmeno le lesioni. Ha infatti sentenziato che «il fatto non sussiste», che le condotte dell’uomo non erano lesive e certo non c’era l’intenzione di offendere ed umiliare.

Codice rosso, la riflessione

Per l’avvocato Giuliano Valer, che assisteva l’operaio, «è ben vero che oggi lo scappellotto o sculaccione sono ritenuti metodi educativi inopportuni perché forme di violenza che possono avere conseguenze negative a lungo termine su bambini e ragazzi». Dal punto di vista tecnico giuridico, però, per il legale, «va osservato che la legislazione italiana non vieta esplicitamente le sculacciate, che talora sono innocue e non oltrepassano la soglia del penalmente rilevante, nemmeno sotto l’aspetto dell’abuso di mezzi di correzione». Il legale fa comunque una riflessione sulla «necessità che siano predisposti meccanismi per evitare che le tutele previste dal “codice rosso” non siano soggette a strumentalizzazioni indebite, come in questo caso». Ovviamente — conclude Valer — «il mio assistito si è mostrato ben lieto, ancora nel corso del procedimento, di riabbracciare la figlia, che ora vive in un’altra città, insieme all’intero nucleo familiare».