L'editoriale

lunedì 18 Agosto, 2025

L’Autonomia nella crisi mondiale

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Il destino comune di Trento e Bolzano mai come ora necessita di nuove prospettive: se pensiamo a quanti operano per costruire ponti e cultura comune tra i due territori il quadro é desolante

La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è assai difficile da definire nella sua veste odierna. Dal percorso istitutivo dell’Autonomia speciale, nell’immediato dopoguerra, ad oggi si sono succedute una serie di conflitti e polemiche che l’hanno marginalizzata, ma non estinta. I «cordiali saluti» finali non si sono mai compiuti e, in fondo, la Regione oggi è, allo stesso tempo, paradosso e impossibilità di evolvere istituzionalmente altrove. Quale altrove? Quello di una storia che dal 1945, e ancora prima dal 1918, si è costruita faticosamente insieme, con la negoziazione politica e culturale, e soprattutto con il quotidiano, la vita che ad ogni ora e in ogni situazione ti pone di fronte la questione della frontiera e di come affrontarla. Posto che la frontiera non è nemica, ma uno spazio di identità dove ciascuno di noi sceglie come e quanto ridefinire una parte di sé.

 

Partita come la depositaria dell’autonomia speciale, la Regione è presto divenuta luogo di sofferenza per la popolazione di lingua tedesca del Sud Tirolo. Dopo il passaggio all’Italia nel 1918, dopo la tragedia del nazismo e delle opzioni, ritrovarsi minoranza in minoranza nella sede istituzionale esito dell’Accordo De Gasperi-Gruber fu vissuto come una prevaricazione. Da lì la stagione del terrorismo, la nascita della nuova leadership della Südtiroler Volkspartei (con la segreteria Magnago) che proclamerà il «Los von Trient», ossia lontano dalla Regione, e la sfiducia alla giunta Odorizzi che aprirà una travagliata fase storica con affaccio sul Secondo Statuto di Autonomia (1972).

 

La posizione di restrizione della popolazione di lingua tedesca, per il cui ritorno all’Austria si era speso anche Churchill dopo il conflitto bellico, si ritrova nella lettera che il questore di Bolzano Renato Mazzoni inviò al ministro dell’Interno Tambroni nel 1957, anno in cui si acutizzò il malessere politico anche in seguito allo scontro sull’edilizia popolare (una legge sull’assegnazione in base alla proporzionale etnica venne bocciata da Roma): «Penso che il tutto sia derivato da una grave carenza culturale, quindi miopia politica della classe dirigente trentina, la quale non avendo capito quale strumento prima culturale e poi amministrativo per una pacifica convivenza in Regione fosse lo Statuto di Autonomia, ha perso un’occasione storica per dimostrare all’Europa la possibilità di una libera, civile, democratica convivenza fra due gruppi etnici, in un ambito territoriale definito. Altrettanto anticulturale è il considerare decadente folclore ogni manifestazione della vita sudtirolese, rifiutandosi di comprendere come la etnicità non sia soltanto lingua ma anche dialetto, usi, costumi, tradizioni, quindi tutto quello che ci giunge dal passato. Il definire “civiltà della Stube” tale tipo di etnicità dimostra solo arroganza e demagogica contrapposizione di una presunta superiorità della civiltà latina nei confronti di ogni altra manifestazione di vita».

 

Il questore Mazzoni rimarcava l’errore di impostazione sulla Regione, la sua personalizzazione in senso trentino («mentre era facile capire che la Regione è un complesso umano, prima che legislativo, fatto di storia, di tradizioni, di comuni sventure e, in una parola, del retaggio dei nostri padri»), e concludeva: «Si badi bene che “Los von Trient” non vuole ancora dire “Los von Rom” se con alta intelligenza politica si vorranno riannodare i fili del dialogo e ricondurre tutto il problema alla sua naturale sede che è una profonda revisione dello statuto» (la lettera è contenuta nel volume «Trentino, Alto Adige, Sudtirolo. Tre sguardi, una storia» di Mauro Marcantoni, Giorgio Mezzalira e Giorgio Postal).

 

La revisione si compì nel 1972 e poi con la modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001. Alla Regione sono rimaste dieci materie residuali dove esercitare la potestà legislativa, alle due Province – ora depositarie dell’Autonomia – ventinove. Le parole di Mazzoni, rilette oggi, conservano ancora un elemento di contemporaneità, sul modo in cui la rappresentazione dell’Alto Adige/Südtirol si svolge agli occhi di un italiano medio e sull’orlo incerto e complesso su cui danza la convivenza culturale.

 

Come più volte sostenuto, la questione non è più il ruolo della Regione, ma una nuova relazione tra Trento e Bolzano che non sia la reciproca autarchia, politica e culturale. L’inaugurazione della stagione del leaderismo politico, dopo quella dei partiti come veicolo della rappresentazione e dell’ideologia, ha condotto alla staffetta in Regione. Lo stesso risultato si potrebbe ottenere anche senza Regione, paradossalmente, come dimostrano la gestione delle grandi partite comuni (AutoBrennero, per esempio). Il dialogo con il governo Meloni ha prodotto un risultato apprezzabile in termini di ripristino delle competenze erose dalla giurisprudenza, ma non ha risolto il tema dell’avvenire.

 

L’Autonomia veleggia anch’essa nella crisi democratica (interna ed esterna) e ora nel dissolvimento dell’ordine internazionale, che è di nuovo crisi delle frontiere. In cui la cultura nazionale rischia di rovesciare la costruzione di una cultura-mondo. Manca una nuova grammatica adatta al tempo, una attenzione al «complesso umano» che in questo momento rendono gli assetti statici. Si dirà, responsabilità della politica. Ma se pensiamo a quanti di noi operano per costruire ponti e cultura comune tra i due territori il quadro apparirà desolante. Tolta la Haydn e il ruolo di qualche storico, anche il mondo della cultura è silente. Il destino comune di Trento e Bolzano mai come ora necessita di nuove prospettive.