martedì 22 Luglio, 2025
Dario Piconese, il commercialista che pratica gentilezza: «Viviamo in tempi dominati da parolacce e insulti, ma ascolto e rispetto sono fondamentali»
di Anna Maria Eccli
La storia del ragioniere roveretano, consigliere dell'associazione Spagnolli: «Nella vita seguo obiettivi di crescita, mi piace creare qualcosa di positivo»

I fascicoli dei clienti bene allineati sul lungo mobile nero che corre lungo le pareti, tante le foto, foto importanti: il ritratto della perduta moglie Rosalba, dei figli Luca e Claudia, di Paolo Manfrini… e a Dario Piconese seduto alla scrivania basta una modesta rotazione del capo per vedere due ritratti in bianco e nero appesi alla parete: «Sono i miei genitori», dice, aprendo la strada a una commozione antica, che è gratitudine, amore, impotente nostalgia. È nato il 20 luglio del 1939; presenza fisica e psicologica da non credere per questo ragioniere commercialista centro di tante realtà economiche, culturali, di volontariato sociale. Dal 2004 è consigliere dell’Associazione Spagnolli-Bazzoni Odv, di cui è tesoriere dal 2020, è Lions dal 1980, membership del Mart. Nel 1978 ha portato in città la grande Vittoria Ottolenghi con la bellissima rassegna di danza classica “C’è danza e danza”, diventando, nel 1983, socio fondatore di “Incontri Internazionali di Rovereto Oriente Occidente”, il gigantesco festival di arte coreutica che dal 1983 proietta Rovereto sulla scena internazionale, di cui è vicepresidente. Era nato dalla mente di tre creativi come Paolo Manfrini, Lanfranco Cis e Paolo Baldessari, certamente, ma come è facile capire è stato realizzato grazie all’apporto pragmatico del commercialista. Ha avviato l’attività da professionista nel ’71 (dopo essere stato dipendente di impianti industriali) ed è stato per 15 anni (dal 1978 al 1993) capo sindaco della Cassa Rurale di Rovereto, per altri 15 presidente dell’’Azienda per il Turismo (1977-1992), vicepresidente dell’Apt Trentino, presidente dal 1986 al 1996 della società Iniziativa Elettronica spa (ex Grundig) e di ciò che oggi è Trentino Sviluppo. Una foto dello scorso marzo lo ritrae tra i Carabinieri di Torbole mentre libera dal drappo tricolore un quadro di Hans Lietzmann, l’importante pittore tedesco scomparso nel 1955 innamorato del Garda. Ritrae un palazzo della piazza di Torbole in fiamme e tre giovani carabinieri che corrono verso il rifugio. Uno di loro è Salvatore Piconese, padre del commercialista, e quel palazzo era la casa in cui la famiglia, con il piccolo Dario di 6 anni, abitava nel 1945. Oggi, a 80 anni esatti di distanza, colpisce l’indole ottimista di un uomo che il successo se l’è guadagnato nell’unico modo possibile per esserne orgogliosi: giorno per giorno, con onestà e grande rispetto verso il prossimo.
Dario, che origine ha la sua famiglia?
«Salentina, i miei genitori erano di Uggiano La Chiesa, un paesone che si trova vicino a Otranto. A 18 anni mio padre si arruolò tra i carabinieri e per loro iniziarono i trasferimenti: Genova, Merano, dove nacque mio fratello, poi Condino, dove sono nato io, quindi Torbole. Nel dicembre del ’66 arrivammo a Rovereto».
“Cherchez la femme”, diceva Dumas… c’è sempre da chiedersi chi sia la madre di un uomo. La sua come era?
«Dolcissima, figlia di gente umile, accudente. È scomparsa nell’82, a casa mia, ogni giorno veniva il dottor Giuseppe Gottardi a farle le flebo. Perderla è stato un grande dolore. Nel ’94 ho perso anche la mia prima moglie, Rosalba Agostini. Ho avuto una vita movimentata, ricca di periodi sereni e altri in cui andare avanti con coraggio, con fede, se ce l’hai. Qualcuno superiore ci deve essere, come si chiami non importa».
La sua storia professionale è fortunata, ma ha fatto anche lei gavetta.
«Sì, da ragioniere ho lavorato per 5 anni nell’amministrazione di un grande impianto industriale di Riva. Credo di essere stato tra i primi a doversela vedere con un centro meccanografico, quando ancora non esistevano sistemi operativi e si usavano le schede perforate per comunicare con le macchine. Mi mandarono una settimana a Miano, alla IBM, ma la formazione vera la feci scegliendo di passare ogni sabato e domenica in fabbrica. Imparavo “facendo”. Però, dopo 5 anni diedi le dimissioni. Il motivo era particolare».
Quanto particolare?
«Lo feci per amicizia, per lealtà, per solidarietà, per coerenza».
Proprio non vuole dirci il motivo d’una decisione tanto grave?
«Riguardava una persona cara, l’alpinista Graziano Maffei. Era stato assunto da pochi mesi quando, nel ’64, ebbe un grave incidente di montagna. Restò in coma a lungo. Io avevo comunicato personalmente alla direzione che mi sarei accollato senza problemi tutto il carico del suo lavoro. Ma all’epoca non esisteva lo statuto dei lavoratori e quando riprese servizio fu accolto da una cortese lettera d’addio. Mi infuriai, cercai subito un altro lavoro e diedi le dimissioni usando le stesse parole con cui l’avevano licenziato: “Mi sono trovato nell’impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro”».
L’avranno capita?
«Non lo so e non mi importa, era una questione di principio. Non è stato facile fare quel passo, era nato il mio primo bambino ed era un salto nel buio, ma non potevo venire meno al mio modo di intendere la vita».
In quale modo intende la vita?
«Posso dire che in un periodo di “parolai” come questo, dominato da parolacce e offese, io sto veramente male. Credo che nella vita sia meglio usare la gentilezza, il rispetto, l’ascolto del prossimo, l’umiltà, la condivisione dei pensieri. Il 13 novembre è la Giornata mondiale della gentilezza, Marco Aurelio la definiva “la più grande gioia dell’umanità”».
Qual è stato il filo conduttore della sua vita?
«Seguire obiettivi di crescita non solo economici, direi. Mi piace creare qualcosa di positivo. Oggi la struttura di cui faccio parte assieme a Giorgio Giovanelli e a Mauro Conzatti, colleghi storici, è diventata una famiglia di circa 30 persone; una società cooperativa di dottori commercialisti/e, consulenti del lavoro, impiegati, di cui sono presidente e che ha ottenuto la Certificazione di Parità di Genere».
In ufficio la foto di Paolo Manfrini, come è nata la profonda amicizia?
«Ci univa lo stesso modo di sentire la vita; sul santino c’era una poesia del ’39 di Bertold Brecht, “A coloro che verranno”: “Noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili. Ma voi, quando sarà venuta l’ora che all’uomo un aiuto sia l’uomo, pensate a noi con indulgenza». L’amicizia nacque quando, lui giornalista, ero presidente dell’Azienda Turismo di Rovereto».
Lei aveva già portato in città la Ottolenghi con “C’è danza e danza”…
«Sì, con Renzo Bee, direttore dell’Azienda, volevo dare vivacità a Rovereto. Portammo la Ottolenghi, che all’epoca conduceva “Maratona d’estate” in televisione, e il coreografo della Scala di Milano Alberto Testa. Presentatore era Giorgio Zandonati, ma dopo 3 edizioni dovemmo smettere perché l’Azienda non aveva una struttura adatta a tenere in piedi una manifestazione del genere».
Altro polo della sua vita è il lavoro svolto per l’Associazione Spagnolli.
«L’ultimo progetto importante realizzato, grazie al lascito di Marisa Nardelli, è stata la costruzione del nuovo reparto maternità ad Orussi, in Uganda».
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