la rubrica
mercoledì 9 Luglio, 2025
Dalla rinascita di Jurassic World alla struggente storia del «ragazzo dai pantaloni rosa»: cosa vedere al cinema
di Michele Bellio
I consigli di Michele Bellio. Tra le perle da recuperare in streaming «Shrek» disponibile su Amazon Prime Video

JURASSIC WORLD – LA RINASCITA
(Jurassic World Rebirth, USA 2025, 133 min.) Regia di Gareth Edwards, con Scarlett Johansson, Mahershala Ali, Jonathan Bailey
Il settimo capitolo del franchise dedicato ai dinosauri è diretto da Gareth Edwards – apprezzato regista degli splendidi Godzilla e Rogue One: A Star Wars Story – e punta tutto sull’impatto visivo e sull’adrenalina, riuscendo parzialmente a rilanciare una saga che, negli ultimi episodi, aveva decisamente perso smalto. Il film si apre con una sequenza ambientata diciassette anni prima rispetto agli eventi principali, costruita secondo i codici tipici dell’horror. È un inizio interessante, che lascia sperare in un approccio più teso e maturo. E per certi versi lo è: rispetto ai precedenti Jurassic World, Rebirth appare più solido sul piano spettacolare. Le sequenze d’azione sono ben costruite – la scena acquatica con il mosasauro ha un buon impatto e la tensione nella parte finale riesce a coinvolgere – ma non mancano difetti di altro genere. La sceneggiatura, firmata da David Koepp (grande penna, già autore degli script dei due episodi diretti da Spielberg), cerca sinceramente di dare spessore ai personaggi – mai davvero memorabili e spesso antipatici – legandoli a un passato doloroso, fatto di fallimenti e solitudine, in parte derivanti dalla loro stessa professione. È un tentativo apprezzabile, che però si perde, compresso da un impianto narrativo che non riesce a sostenerne la complessità. Emblematico, in questo senso, il personaggio interpretato da Mahershala Ali (il capitano Duncan Kincaid), costruito per essere il più nobile e poetico, ma poco valorizzato. Un discorso simile vale per i temi trattati. Il film insiste ripetutamente sul denaro: tutto gira intorno al potere economico (la nuova spedizione mercenaria nella zona equatoriale, ora proibita agli esseri umani, mira a recuperare il DNA di tre specie di dinosauri per sfruttarlo a fini farmaceutici), e questo viene esplicitato spesso nei dialoghi. Ma se da un lato ciò riflette la superficialità e il cinismo dell’epoca rappresentata, dall’altro manca il coraggio di affrontare davvero le implicazioni più profonde. La manipolazione genetica di esseri viventi, il loro sfruttamento a fini militari o d’intrattenimento, e il conseguente disastro etico e ambientale che ne deriva restano sullo sfondo, accennati ma mai messi davvero al centro della narrazione. Detto ciò, Rebirth funziona piuttosto bene come film d’intrattenimento. Il ritmo regge, le sequenze spettacolari non mancano e alcune trovate colpiscono nel segno. L’incontro con i titanosauri emoziona, ma è un momento del finale – con le note di Stand by Me in sottofondo – a rimanere impresso per il suo effetto straniante e inatteso. Interessante anche il modo in cui il film accenna a una certa disaffezione collettiva nei confronti dei dinosauri, ormai dati per scontati e visti più come un problema che una meraviglia. È un altro segnale dei tempi, ben espresso dalla sequenza nel traffico cittadino, ma anche una riflessione paradossale sul senso stesso del franchise cinematografico. Nel complesso, Jurassic World Rebirth si presenta come un prodotto di transizione. Guarda indietro con citazioni evidenti, cercando di spingere l’effetto nostalgia sui quaranta/cinquantenni (dalla scena dei velociraptor del film del ’93, fino ai momenti che rimandano a Il mondo perduto, per non parlare dell’uso insistito del tema originale in colonna sonora), ma strizza l’occhio a un pubblico nuovo, probabilmente meno legato alla mitologia originaria e più disposto a lasciarsi trascinare da una corsa in CGI. Ha del brio in più rispetto ai suoi predecessori, ma resta lontano anni luce dalla potenza e dal carico simbolico del capostipite. Solo il tempo ci dirà se l’avventura finisce qui o se ci sarà ancora spazio per un’ulteriore evoluzione.
SPECIALE CINEMA CAPOVOLTO – MARTEDÌ 15 LUGLIO
IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA
(Italia 2024, 121 min.) Regia di Margherita Ferri, con Samuele Carrino, Claudia Pandolfi
Tratto da una storia vera, tragica e purtroppo emblematica dei nostri tempi, Il ragazzo dai pantaloni rosa è un film di denuncia sul cyberbullismo, ma anche un racconto intimo e pudico di crescita, fragilità e relazioni familiari. Il protagonista è un adolescente romano (con origini calabresi) che si trova ad affrontare un momento già delicato – la separazione dei genitori – con un carico emotivo superiore alla sua età. La sua è una sensibilità profonda, quella che la nonna descrive con una frase semplice ma rivelatrice: «Mi sembra una di quelle persone che pensa a far felici gli altri». Il ragazzo studia, è bravo a scuola, ma fatica a trovare un posto tra i coetanei, fatta eccezione per Sara, compagna altrettanto emarginata e appassionata di cinema. Il loro legame è sincero, fatto di weekend condivisi e di quella complicità silenziosa che nasce tra due anime affini. Con il passaggio alle scuole superiori, però, tutto cambia: inizia un’escalation di vessazioni da parte di un gruppo di bulli, guidati da un ragazzo ambiguo, con cui il protagonista tentava già alle medie di stabilire un rapporto. Che si tratti di attrazione, bisogno di appartenenza o semplice speranza, il risultato è lo stesso: isolamento crescente e perdita di ogni punto di riferimento. La regia – firmata da un’autrice che dimostra una sensibilità non comune nel nostro cinema – restituisce con delicatezza la complessità dei legami emotivi. Colpiscono in particolare il rapporto tra il protagonista e la madre e quello con l’amica Sara, tratteggiati con misura e autenticità. C’è attenzione nel raccontare gli spazi dell’intimità quotidiana. Non mancano, tuttavia, alcune ingenuità: l’uso insistito del ralenti, una colonna sonora troppo presente e talvolta invadente, l’impiego della voce narrante, e alcune scelte di montaggio che rimandano più a un prodotto televisivo che a un’opera cinematografica. Manca anche un po’ di coraggio nel definire con più decisione le sfumature psicologiche dei personaggi e le loro motivazioni. Eppure, accanto a questi limiti, il film riesce nel suo intento, soprattutto nella costruzione di una parabola emotiva che segue il protagonista nel suo lento scivolare nel dolore, fino alla consapevolezza – tragica – di non riuscire più a uscirne. È qui che prende forma l’idea del cupio dissolvi, quella sensazione di non avere scampo che avvolge il ragazzo e che non riesce a comunicare, nemmeno alla madre, nonostante il loro legame profondo. Simbolicamente efficace l’ambientazione delle giostre: un non-luogo dove riaffiora un’innocenza perduta, in un raro momento di serenità. E significativa anche la scelta di non mostrare l’evento finale – già annunciato all’inizio – ma di lasciarlo fuori campo, in un gesto di rispetto verso la realtà e verso lo spettatore. Il ragazzo dai pantaloni rosa non innova né sorprende sul piano formale, ma riesce, con una certa misura, a portare lo spettatore – soprattutto quello più giovane – dentro una storia che scuote. È un’opera che non fa moralismi, ma invita all’ascolto. E mostra, con sobrietà, tutto ciò che si perde – affetti, relazioni, possibilità – ogni volta che la solitudine e la violenza vincono. Dando volto e voce a chi, troppo spesso, resta invisibile.
EVENTO SPECIALE
TRA NATURA E QUOTA – GIOVANNI STORTI SOPRAVVIVE ALLE ALPI APUANE
(Italia 2025, 70 min.) Regia di Manuel Zarpellon e Giorgia Lorenzato, con Giovanni Storti
Presentato in selezione ufficiale all’ultimo Trento Film Festival, «Tra natura e quota» è un piccolo documentario che si presenta come il resoconto leggero e informale di un’escursione tra amici, ma che nasconde un cuore sincero e una missione chiara: raccontare, con semplicità e ironia, la bellezza fragile della natura e l’urgenza di proteggerla. Protagonista è Giovanni Storti, comico amatissimo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, da tempo impegnato anche in una personale e appassionata attività di divulgazione ambientale sui suoi canali social. Chi già segue Giovanni su Instagram conosce bene il tono in cui alterna riflessioni sulla biodiversità, il cambiamento climatico e le buone pratiche quotidiane, con lo stile che gli è proprio: ironico, mai aggressivo, sempre accessibile. Questo spirito viene perfettamente trasposto nel documentario, che lo segue tra le cime delle Alpi Apuane – territorio ancora troppo poco conosciuto, al confine tra Toscana e Liguria – in compagnia di guide alpine, botanici e biologi locali. Con loro esplora un ecosistema unico, ricchissimo di specie endemiche, ma anche minacciato dallo sfruttamento delle cave di marmo, i cui residui impattano direttamente su corsi d’acqua e falde. Tra una battuta e un piatto tipico gustato nei rifugi, Giovanni ascolta e racconta: condivide storie, raccoglie voci e testimonianze, osserva il paesaggio e riflette su un equilibrio difficile tra salvaguardia ambientale e necessità economiche. La sua è una presenza costante ma mai ingombrante: è curioso, partecipe, e sa mettersi in gioco, anche fisicamente, affrontando una ferrata con il timore (comprensibile) di chi si avvicina ai settant’anni, ma anche con la volontà di fare la propria parte. Il tono è quello di un semplicissimo diario di viaggio: disordinato a tratti, ma onesto e vitale. Alterna squarci documentaristici a momenti pensati proprio per i social, con l’obiettivo di parlare davvero a tutti – in particolare ai più giovani – senza retorica e senza presunzione. E proprio questa disarmante semplicità è forse la sua arma più potente: non pretende di insegnare, ma riesce a trasmettere l’urgenza della consapevolezza ambientale partendo da un gesto quotidiano, da un sorriso, da un incontro. In fondo, come dice lo stesso Giovanni nelle battute finali, è guardando negli occhi questi ragazzi così innamorati della propria terra che si può intravedere una speranza concreta per il futuro. In programmazione al Cinema Modena di Trento, martedì 15 luglio alle 20.45.
STREAMING – PERLE DA RECUPERARE
SHREK
DISPONIBILE SU AMAZON PRIME VIDEO
(USA 2001, 90 min.) Regia di Andrew Adamson e Vicky Jenson
A quasi venticinque anni dalla sua uscita, Shrek resta un titolo fondamentale per capire come, agli inizi del nuovo millennio, l’animazione abbia smesso di essere soltanto un territorio sicuro per fiabe tradizionali e messaggi edificanti, trasformandosi invece in terreno fertile per una satira sfacciata, autoironica e irriverente. Dopo il promettente Il principe d’Egitto e il raffinato Galline in fuga, la DreamWorks piazza il suo primo, vero colpo da maestro, sbaragliando la concorrenza (Disney compresa) e ridefinendo il concetto stesso di film d’animazione per famiglie. Scritto a otto mani da chi aveva sceneggiato Aladdin, ma anche serie televisive più irriverenti come King of the Hill e Beavis and Butt-head, Shrek è un film rivoluzionario proprio perché destruttura con intelligenza i codici classici del racconto fiabesco, ribaltando ruoli e aspettative. Al centro della storia non c’è un principe valoroso, ma un orco misantropo e compiaciuto della sua esistenza solitaria in una palude puzzolente. Quando però tutte le creature delle fiabe vengono deportate nel suo territorio per ordine del tirannico e maniacale Lord Farquaad, Shrek si vede costretto a intraprendere un’avventura che non ha nulla di eroico: riportare la quiete a casa sua. Ad accompagnarlo, un asino logorroico e incontenibile – Ciuchino, doppiato in originale da un esuberante Eddie Murphy – e, più avanti, una principessa che nasconde un segreto. Lungo il viaggio, tra draghi innamorati e parodie dei classici Disney, il film costruisce una comicità a strati, come le cipolle tanto amate da Shrek stesso: da una parte le gag visive e fisiche che fanno ridere i più piccoli, dall’altra i riferimenti sottili (ma anche decisamente espliciti) al mondo adulto, alla cultura pop, al sesso e alla politica, che divertono i genitori. La forza di Shrek sta tutta nel suo essere profondamente anti-retorico: qui i principi sono ridicoli, i cattivi sono repressi (memorabile il Farquaad di John Lithgow, caricatura di un’ossessione per il controllo e la purezza), le principesse fanno kung fu e l’orco è, di fatto, il personaggio più onesto e sensibile della storia. La grafica, all’epoca stupefacente per espressività, e il ritmo serrato hanno trasformato il film in un cult trasversale, che ha sfiorato i 500 milioni di dollari di incasso mondiale. Rivisto oggi, Shrek colpisce ancora per la lucidità con cui sovverte ruoli e stereotipi, ma anche per il coraggio con cui ha osato sporcarsi, spingendo con leggerezza sul pedale della volgarità, in modo sorprendentemente naturale. Ha aperto la strada ad una nuova idea di cinema d’animazione americano mainstream, meno legato al candore idealizzato dei racconti classici e più vicino alle contraddizioni del presente. Per questo è anche il primo film di questo secolo ad essere stato scelto per la conservazione dalla Library of Congress. Un piccolo grande terremoto, insomma. Può non piacere a chi preferisce un umorismo più raffinato o una narrazione più tradizionale. Ma resta innegabile che Shrek abbia segnato un prima e un dopo. E vale la pena tornare a guardarlo.
L'intervista
Dulbecco e la storia del piacere sovversivo: «La masturbazione femminile è stata patologizzata e repressa. Oggi è un atto politco»
di Stefania Santoni
Nell'ultimo saggio la pedagogista ripercorre le tappe della censura dei corpi. «A ragazze e ragazzi parliamo dell'autoerotismo come esperienza valida in sé, che può durare una vita intera»