L'intervista

martedì 8 Luglio, 2025

Dulbecco e la storia del piacere sovversivo. «Riscoprire lentezza e desiderio non finalizzato alla performance è autodeterminazione del corpo»

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Nell'ultimo saggio la pedagogista ripercorre le tappe della censura dei corpi. «A ragazze e ragazzi parliamo dell'autoerotismo come esperienza valida in sé, che può durare una vita intera»

Cosa accade quando un gesto intimo, solitario e spesso taciuto si rivela un atto politico? Alessia Dulbecco, pedagogista, counsellor e formatrice da anni impegnata nell’ambito dell’educazione alla parità di genere, lo racconta con chiarezza nel suo nuovo libro Il piacere sovversivo. Breve storia della masturbazione (Tlon, 2025). Un saggio necessario che attraversa secoli di repressione, stigma e controllo dei corpi per restituire all’autoerotismo la sua natura più autentica: un’esperienza di libertà, di scoperta di sé e di emancipazione dal pensiero patriarcale e capitalista. Dagli anelli uretrali alle cinture di castità, fino alla medicalizzazione ottocentesca e al ritorno contemporaneo del vibratore come strumento di cura e piacere, Dulbecco ripercorre la storia di una pratica troppo a lungo rimossa o ridicolizzata. Perché la masturbazione, in particolare quella femminile, ha fatto così paura? E come può oggi diventare un linguaggio di autodeterminazione, capace di liberarci dai dettami della coppia eterosessuale e dalle aspettative sociali sul desiderio? A partire da queste domande, abbiamo dialogato con l’autrice per riflettere sul potere eversivo del piacere, sulla forza dell’immaginazione e sull’urgenza di un’educazione affettiva finalmente libera da colpa e vergogna.

Alessia Dulbecco, come nasce l’idea di scrivere «Il piacere sovversivo»?
«L’idea è nata da un incrocio fortunato tra urgenza personale e proposta editoriale. La redazione de L’Indiscreto, con cui collaboro da tempo, mi ha proposto di espandere un articolo che nel 2022 aveva suscitato un discreto interesse: parlava della masturbazione maschile e dei falsi miti che ancora oggi la circondano. L’occasione era quella di farlo diventare un saggio per la collana Urano, curata con Tlon. Scrivere di masturbazione oggi – e farlo con un taglio storico, pedagogico e di genere – è stato una scommessa. Il tema rimane controverso, nonostante la parvenza di apertura. Ma proprio per questo ho sentito il bisogno di affrontarlo: per rompere quella strana assenza di discorso, quell’imbarazzo che circonda ancora l’autoerotismo, specialmente quando non viene raccontato nei soliti termini manualistici o normativi».

Nel libro racconta come la masturbazione sia stata per secoli repressa e patologizzata: qual è stato il momento storico più cruciale in questa demonizzazione del piacere solitario?
«Il momento di svolta è senza dubbio il Settecento, il secolo che per paradosso viene considerato quello della “ragione”. È lì che la masturbazione smette di essere soltanto un peccato agli occhi della Chiesa e diventa una malattia da diagnosticare e curare. Con i testi di Tissot e il successo editoriale di Onania, nasce l’ossessione per i danni fisiologici e mentali provocati dall’abuso di sé. È la pedagogia – quella illuminista, educativa e apparentemente laica – a farsi portavoce di questa narrazione allarmista. E non è un caso: l’autoerotismo sfugge al controllo sociale, si consuma nel segreto, non produce, non riproduce, e per questo diventa sospetto. La borghesia in ascesa non poteva permettere una pratica che minacciava l’efficienza del corpo e la stabilità dell’ordine familiare.
Perché l’autoerotismo ha fatto così paura, soprattutto nei confronti delle donne? Che ruolo ha giocato il controllo del corpo femminile nella costruzione di questo tabù?
«Il corpo femminile è sempre stato oggetto di controllo, sorveglianza e addomesticamento. La masturbazione, in questo contesto, è stata vista come una minaccia doppia: non solo rompeva il legame tra sessualità e riproduzione, ma sfidava anche l’idea della donna come soggetto “passivo” o privo di desiderio. Il piacere clitorideo è stato per secoli demonizzato, considerato inferiore o addirittura pericoloso, mentre quello vaginale è stato legittimato solo perché funzionale al piacere maschile e alla procreazione. Per questo l’autoerotismo femminile è stato medicalizzato, patologizzato, e a volte anche fisicamente represso, attraverso pratiche come la clitoridectomia. Il messaggio era chiaro: una donna che conosce il proprio corpo e il proprio desiderio è una donna meno controllabile».
Nel libro cita l’immaginazione come una forza sovversiva. Quanto è ancora difficile, oggi, rivendicare uno spazio intimo, solitario e non produttivo senza colpevolizzarsi?
«È difficilissimo. Viviamo in una società che ci spinge a ottimizzare tutto: tempo, corpi, emozioni. Anche il piacere diventa uno strumento di performance, qualcosa che “serve” a migliorare la relazione, a scaricare lo stress, a tenere il partner felice. L’idea che esista un gesto erotico che non produce nulla, che non serve a nessuno se non a noi stess*, è profondamente controculturale. Ecco perché l’immaginazione diventa centrale: è lo spazio simbolico in cui il piacere può liberarsi dalle logiche del mercato e del controllo. Ma lo sappiamo fare ancora? Sappiamo ancora immaginare senza subito monetizzare, ottimizzare, condividere?»
Il piacere è anche un atto politico: in che modo la masturbazione può diventare oggi uno strumento di autodeterminazione contro le logiche patriarcali e capitaliste?
«Lo diventa nel momento in cui viene sottratta al controllo. Quando smette di essere subordinata alla coppia, alla prestazione, alla narrazione porno mainstream. Quando si riappropria della lentezza, del desiderio non finalizzato, dell’inutilità apparente. È un gesto di riappropriazione radicale del corpo e del tempo. Un tempo che non è lavoro, non è produttività, non è investimento affettivo. E in una società in cui il corpo viene continuamente disciplinato – dai modelli estetici, dalle norme di genere, dal marketing erotico – poter rivendicare il proprio piacere fuori da queste gabbie è profondamente politico».

Se potesse riscrivere un manuale scolastico di educazione sessuale, che spazio darebbe alla masturbazione? E come cambierebbe, secondo lei, l’educazione affettiva delle nuove generazioni?
«Parlerei di masturbazione fin da subito, non come fase da superare o come esercizio preparatorio, ma come esperienza valida in sé, che può durare una vita intera. Sottolineerei che il piacere non è un premio da conquistare in coppia, ma un diritto. Cambierebbe moltissimo, secondo me, anche la percezione del consenso, dell’affettività, del corpo. Aiuterebbe a scardinare l’idea che la sessualità sia sempre relazione, sempre prestazione, sempre racconto condiviso. L’autoerotismo, se riconosciuto e valorizzato, può diventare uno strumento potentissimo per sviluppare autonomia, consapevolezza, desiderio. E da lì, forse, anche un modo più libero di stare con gli/le altri/e».