il fatto
martedì 8 Agosto, 2023
Delitto di Rovereto, Nweke Chukwuka mai stato valutato né curato. Bincoletto: «Posti in Rems insufficienti»
di Simone Casciano
Nonostante i gravi episodi precedenti l’uomo non era seguito dal Centro di salute mentale e non era inserito al Servizio per le dipendenze (Serd)

«Non era seguito da noi». Lo dicono i dirigenti del Centro di salute mentale di Trento e Rovereto, Claudio Agostini e Marco Goglio. «Non era seguito da noi», lo conferma anche la dirigente del Servizio per le dipendenze (Serd) Roberta Ferrucci. Parlano, e non potrebbe essere altrimenti, di Nweke Chukwuka. L’uomo di 37 anni responsabile della feroce aggressione di sabato sera a Rovereto. Un assalto costato la vita a Iris Setti, una donna di 61 anni, uccisa dal suo aggressore a mani nude, con una ferocia inaudita. I fatti di sabato scorso sono solo gli ultimi e i più tragici che vedono protagonista l’uomo. Nweke Chukwuka era ormai conosciuto per i suoi episodi di rabbia e disagio che già qualche volta si erano trasformati in aggressioni. Il fatto più noto quello di un anno fa quando, in balia dei fumi dell’alcol, del tutto fuori di sé, aveva danneggiato delle auto in sosta per le vie di Rovereto e aggredito dei passanti, compreso un ciclista. Quindi se l’era presa con i carabinieri intervenuti, saltando sopra anche all’auto di servizio (nell’immagine quel momento immortalato dal cellulare di un cittadino). Allora si era opposto ai militari con spintoni, calci e pugni e dopo essere stato portato in ospedale era stato arrestato per danneggiamento aggravato, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Per quei fatti l’uomo era stato raggiunto da misura cautelare con obbligo di firma dai carabinieri di Rovereto. Come sia possibile che una persona che avesse dimostrato eccessi riconducibili sia ad una patologia mentale che ad una seria dipendenza dall’alcol, tra le sostanze forse quella più incline a causare violenza, rimane una domanda per ora senza risposta. I servizi sociali prima o poi dovranno fare luce su questa questione. Secondo lo psichiatra Ezio Bincoletto però c’è anche un problema di strutture. «Ho l’impressione che i servizi facciano fatica», dice il medico che ha lavorato in Azienda sanitaria fino al 1991 per poi iniziare la carriera nel privato. «Non per responsabilità dei colleghi – precisa Bincoletto – Fanno del loro meglio. Ma lavorando sulla degenza breve, con persone che stanno in struttura al massimo tre settimane e poi escono, come fai a curarle?». Secondo Bincoletto stanno diventando sempre più evidenti «i limiti del sistema italiano, sia a livello di strutture che di legge». Secondo lo psichiatra l’Italia sarebbe carente per quel che riguarda la lunga degenza. «Servono luoghi di ricovero per la lunga degenza. L’Italia è l’unico Paese a non averli. Ma per le patologie gravi ce n’è bisogno. Intendo luoghi di cura intensiva a lunga permanenza, strutture in cui il malato possa essere curato e rieducato in modo da guadagnare il necessario controllo sulla propria impulsività». Per la verità una struttura dedicata ai malati più gravi e potenzialmente pericolosi ci sarebbe: la Rems. Acronimo di residenza per l’emissione delle misure di sicurezza. In Trentino si trova a Pergine. «Ma è una struttura molto piccola, appena 10 posti complessivi per Trento e Bolzano. Il vecchio ospedale psichiatrico nacque con 120 posti e arrivò ad averne più di 1.500 – dice Ezio Bincoletto – Sicuramente prima erano troppi, e dentro c’era gente che non doveva stare nell’ospedale psichiatrico, ma oggi sono troppo pochi». Numeri ristretti che rendono difficile, per i malati che ne hanno bisogno, accedere alla struttura. «Parlo per esperienza personale. Avevo segnalato un mio paziente in gravi condizioni ed ho riscontrato forti difficoltà, proprio perché manca la disponibilità di posti di degenza». Se la carenza più grave sono le strutture anche come viene regolato il ricovero coatto è un problema secondo Bincoletto. «L’obbligatorietà della cura ogni tanto è necessaria. Chi ha una patologia mentale così grave spesso non ha la consapevolezza di riconoscere la malattia e accettare un percorso di cura. Il Tso non è uno strumento adatto, in tre settimane in una cameretta non curi le persone. Serve un luogo in cui i pazienti possano rimanere il tempo necessario per curarsi».
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