L'intervista

sabato 27 Settembre, 2025

Simone Villotti: «Ho fatto oltre 2500 immersioni in grotta in vita mia. La volta che ho rischiato di più? Ad Arco»

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Lo speleologo trentino racconta la sua passione: «Ho iniziato nel 1992 e non ho più smesso. Le esplorazioni sono intime, lontane dalle persone ed emozionanti»

Più di cinquemila immersioni all’attivo, di cui oltre seicento a profondità superiori a cento metri. È questo lo straordinario curriculum di Simone Villotti, 47 anni, di Trento, sub speleologo riconosciuto a livello mondiale. Subacqueo tecnico dal 2000 e subacqueo CCR dal 2006, si è immerso a profondità superiori ai centotrenta metri, con immersioni in grotta di oltre tre ore. Nel suo settore, è un vero e proprio punto di riferimento a livello nazionale e non solo. Tra i suoi molti progetti all’attivo, spicca la sua attività di ricerca nelle grotte di Frasassi, in provincia di Ancona, considerate tra le più belle grotte a livello europeo. Qui Villotti coordina un gruppo di circa venticinque persone tra scienziati, medici, speleologi all’interno di un progetto avviato con Dan Europe, un ente internazionale che si occupa di sicurezza nelle immersioni. Di recente Villotti ha pubblicato un articolo su «InDepthmag», una tra le riviste online più importanti a livello internazionale per chi opera nel mondo della subacquea.

 

Simone Villotti, come le è nata la passione per la sub speleologia?

«Nel 1983, a cinque anni, sono andato a visitare le grotte di Frasassi con la mia famiglia. Sento ancora dentro di me l’emozione che provai di fronte a quegli spazi incredibili. Penso che la passione per l’ignoto e per le esplorazioni sia nata da lì. Poi questa passione mi ha accompagnato negli anni: ho deciso di dedicarmi alla speleologia perché si tratta di un’attività che permette veramente di esplorare aree ancora remote, lontane dalla vita di tutti i giorni. La sub speleologia, in particolare, permette di essere davvero degli esploratori».

 

E professionalmente come si è formato?

«Le prime attività in subacquea e all’interno di grotte aeree le ho svolte nel 1992. Trento all’epoca era una città fiorente per l’attività subacquea. La mia formazione è proseguita in Messico e poi, pian piano, ho cominciato a conoscere persone che operano nell’ambiente in numerosi meeting internazionali. Ho preso parte a dei progetti esplorativi in Grecia, sono stato sugli Urali in Russia. Oggi parte del mio lavoro è quella del team builder: utilizzo le mie conoscenze degli ambienti estremi per trasferire competenze alle persone in ambito lavorativo».

 

Alle grotte di Frasassi come ci è giunto?

«Allargando piano piano le mie relazioni. Devo molto anche alla mia fidanzata, di Viterbo, grazie alla quale ho iniziato a frequentare di più il centro Italia. Da cosa nasce cosa: i gruppi speleologici della zona hanno cominciato a invitarmi per esplorare aree che non riuscivano a raggiungere. La mia prima immersione a Frasassi è avvenuta due anni fa. Attualmente è attivo un progetto con Dan Europe. Tra le varie attività che svolgiamo c’è l’analisi dei dati fisici su come si comporta il corpo durante gli sforzi. Nelle immersioni, di solito, quando si finisce l’attività è importante non fare sforzi, perché il corpo sviluppa delle bolle. Per uno sub speleologo ciò non è possibile, perché servono ore e ore di arrampicata o di strisciata per uscire dalla grotta dopo l’immersione».

 

In quali direzioni sta andando la ricerca degli speleologi subacquei?

«La speleologia è diventata uno strumento essenziale per gli scienziati e per i ricercatori per analizzare ambienti ipogei ancora integri. Per esempio, nella grotta di Frasassi ci sono degli studi in atto per analizzare l’effetto che ha la forza della luna sulle masse d’acqua all’interno della grotta. Al riguardo però ci terrei a fare una puntualizzazione…».

 

Prego.

«Talvolta la speleologia è un ambiente che ha delle assonanze con la montagna, perché si porta dietro dei vecchi retaggi culturali e fa fatica a progredire. È un ambiente molto chiuso dal punto di vista della condivisione delle informazioni. Questa è una cosa a cui tengo molto, perché io credo che non ci sia esplorazione senza condivisione delle informazioni. Una delle missioni che mi sono posto è quella di portare al di fuori più materiale possibile in termini di immagini, video, dati scientifici, in modo che tutti possano averne visione ed esserne edotti. Questo è importante per tanti motivi. Non da ultimo perché permette di condividere il lavoro svolto con tutte le persone che ti accompagnano, che si spaccano la schiena per permetterti di esplorare certi ambienti. Poi è importante per mostrare gli ambienti che ci sono e che spesso sono praticamente irraggiungibili, e che è importante tutelare».

 

Lei in quali grotte è stato e quali pensa che siano le più affascinanti?

«Sono stato in decine di grotte. Penso di avere oltre duemilacinquecento immersioni in grotta nel mio bagaglio. Le grotte Cenote in Messico mi piacciono molto. Un’altra grotta che mi è rimasta impressa è l’Orda Cave negli Urali, in Russia. Lì l’ambiente è freddissimo. Mi ricordo che, quando ci andai, era inverno e fuori dalla grotta c’erano – 32 gradi. La parte aerea della grotta era a – 10 gradi centigradi, l’acqua a 3°. La limpidezza dell’acqua era straordinaria».

 

Cosa significa per lei la speleologia e, in particolare, la specialità subacquea?

«Per me la speleologia è più assonante con lo yoga rispetto al paracadutismo, perché è un ritorno in utero, in un ambiente protetto. È un’attività di esplorazione che sa essere molto intima, perché si è spesso in solitudine, lontani dall’uscita dalla grotta, dai compagni, dal resto delle persone. Vivere quei momenti è una grande emozione e una grande realizzazione personale».

 

Un lavoro e una passione che, talvolta, si portano appresso grandi rischi. Le faccio una domanda diretta: ha mai rischiato la vita?

«Sì, mi è capitato. Una volta ciò avvenne proprio qui in Trentino. È stato un errore di gioventù, se vogliamo chiamarlo così. Mi trovavo nella grotta “bus del Diaol” ad Arco e, nella via di ritorno, per errore mi sono trovato immerso in un sifone senza nulla da cui respirare. Mi sono salvato grazie a una buona dose di fortuna».

 

Come è strutturato il suo allenamento?

«Sicuramente la grotta allena la grotta, nel senso che più immersioni ed esplorazioni si fanno più ci si allena. Poi a me piace molto arrampicare e camminare in montagna. Pratico tutte le discipline dell’alpinismo. In generale comunque tutto il mio allenamento è concentrato sulle attività all’aperto, sul campo, e meno in palestra».

 

Quali obiettivi ha per il suo futuro?

«Mi piacerebbe finire di esplorare quelle tante grotte che ancora mi mancano nel Sud Italia. Poi mi piacerebbe ritornare in alcune grotte che ho esplorato in passato in Trentino. Qui ho trovato delle persone che mi hanno trasmesso la passione. Penso per esempio alla grotta “bus de la Spia” a Sporminore, dove c’è una grotta esplorata da Mauro Bombardelli, una persona che è stata veramente un’ispirazione per me. Guardando più in generale, un mio sogno è quello di un domani in cui dei nuovi speleosub portino avanti ciò che io ho tracciato. I miei figli, anche se piccoli (di cinque e nove anni), condividono con me delle esperienze speleologiche che, spero, possano essere formative anche al di fuori del contesto speleologico»