L'intervista

sabato 21 Giugno, 2025

Simone Moro: «Per gli Ottomila le agenzie offrono pacchetti a pagamento: 100mila dollari a vetta. Per farli tutti? Un milione»

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L'alpinista: «Al campo base, capita che mi chiedano come mai non ho i soldi per comprare una bombola. Insomma, quello che Messner definisce “alpinismo da pista”. Io preferisco chiamarli turisti d'alta quota che pagano profumatamente per avere molti servizi

«Gli Ottomila che abbiamo conosciuto attraverso le imprese dei grandi del passato, da Cassini a Bonatti a Messner, sono appesi al chiodo. Siamo cresciuti pensando che quelle montagne lontane, difficili, altissime, da salire dopo aver fatto esperienza, fossero il traguardo di una carriera. Ebbene, non è più così. Coloro che vanno in Himalaya per tentare un Ottomila con ottimi curricula, salendo senza ossigeno, sherpa, corde fisse, capaci di trovarsi la via, di mettersi e di togliersi dai guai, non ci sono quasi più. Il 98% degli alpinisti ha conoscenze decisamente diverse. Oggi in Nepal, nel periodo migliore tra aprile e maggio, si fa alpinismo turistico. Ma questo fenomeno non rappresenta affatto la fine dell’alpinismo, che è vivo e vegeto». Parola di Simone Moro, celebre alpinista che tra il resto detiene il record di maggior numero di ascensioni in prima invernale sugli Ottomila, e che il 20 giugno, con la presentazione del suo ultimo libro “Gli Ottomila al chiodo”, ha inaugurato la Coppa Europa Senior Lead all’Adel Climbing Wall di Campitello di Fassa.

Ma come funziona questo turismo e chi sono gli himalayisti?
«Ci sono agenzie che propongono i 14X8000, il Grande Slam, con gli sherpa che portano zaini, tende, anche 10 bombole d’ossigeno a testa, cucinano, montano le corde fisse, danno il ritmo durante l’ascesa. Insomma, quello che Messner definisce “alpinismo da pista”. Io preferisco chiamarli turisti d’alta quota che pagano profumatamente per avere molti servizi. Si scrive una mail all’agenzia e viene proposto un pacchetto, che per una vetta costa circa 100 mila dollari. Per tutti gli Ottomila supera il milione. In genere, i clienti sono manager di multinazionali, che arrivano con jet privati a Kathmandu, e a cui viene fatto un corso di alpinismo al campo base, indossano per la prima volta i ramponi, salgono e scendono dall’Everest. Ne ho conosciuti anch’io, vivono esperienze che apprezzano, ma che non comprendono appieno. In Nepal questo business ha portato benessere tanto da farlo uscire dalla lista dei Paesi più poveri al mondo».
In Nepal per scalare gli Ottomila bisogna avere permessi e certificati, sono obbligatorie guide e ossigeno sopra i 7000 metri. Lei che fa?
«Al campo base, capita che mi chiedano come mai non ho i soldi per comprare una bombola. Oppure quando preparo le spedizioni invernali, dato che c’è uno sconto del 50% sui permessi governativi, che mi dicano: “ma uno famoso come te non ha uno sponsor per ossigeno e sherpa?”. E quando spiego loro le mie regole del gioco, mi guardano pensando “allora tu ami proprio soffrire”. Sugli Ottomila pakistani c’è maggiore libertà, ma sui nove nepalesi gli alpinisti tradizionali subiscono limitazioni, specie in primavera. Se si va ad agosto sull’Everest, invece, come fece Messner in solitaria nel 1980 in periodo monsonico, si trova ancora la stessa montagna solitaria, ostile, difficilissima, con nessun segno di corde fisse perché è tutto sepolto dalla neve. Quindi, il boom turistico degli Ottomila ha stimolato chi ha un’altra filosofia a cambiare stagione. Ecco perché mi sono specializzato nelle invernali, in tempi non sospetti».
Ha sempre fuggito l’omologazione, interpretando l’alpinismo a suo modo, con le ascese invernali, più complesse e rischiose. Ma quanto è difficile mantenere uno stile unico?
«Il segreto sta nel considerare virtuoso il fallimento: l’uomo è programmato per vincere fallendo. L’ho sperimentato e raccontato spesso. Per essere unici bisogna scegliere un obiettivo mai raggiunto, desiderare fortemente di realizzarlo, senza vergognarsi dei tentativi negativi. Certo, le rinunce me le ricordo tutte, perché ho sofferto. Non è stato per niente facile, tornare indietro a 91 metri dalla vetta dell’Annapurna, tanto per citarne una. Anche se il fatto di essere ancora vivo oggi è probabilmente qualcosa di cui dovrei andare più orgoglioso».
Oggi molte esperienze si vivono con tecnologia e realtà virtuale, che valore ha l’esplorazione?
«Siamo nell’epoca di Google Earth, con cui vediamo ogni angolo del pianeta. Di regioni, valli e montagne inviolate ce ne sono moltissime. Con un’applicazione o un visore la osservi e, forse, ti pare di essere là. Ma manca il contatto epidermico, olfattivo, esperienziale, l’incognita di mettersi in viaggio e in gioco. Sempre più ci sarà chi preferirà rimanere sul divano e sapere che c’è quel posto difficile da raggiungere. Ma ci sarà sempre chi quel posto lo vorrà sperimentare, perché da un viaggio del genere torni cambiato, dopo un viaggio con Google Earth al massimo scrolli la pagina. Le esperienze ti cambiano. Dalle mie settanta spedizioni sono tornato cambiato e oggi mi piaccio di più di quando ho cominciato».
L’alpinismo e il suo racconto che vie possono prendere oggi?
«L’alpinismo è in salute e ci sono molti giovani interpreti che fanno cose eccelse, anche senza andare troppo lontano, tra loro c’è chi apre nuove vie anche sulle Dolomiti. È un esercizio del presente, praticato laddove i forti del passato non sono stati. La sfida per questi giovani è rendere di nuovo interessante, con la narrazione, l’arrampicata e l’alpinismo su montagne di 6.000 o 7.000 mila metri, le cime secondarie degli Ottomila che devono ancora essere salite e raccontate. L’alpinismo turistico ci sta dando una mano, perché c’è meno interesse verso gli Ottomila. È chiaro che per far rifiorire curiosità bisogna dedicare tempo al racconto, i social media possono essere utili, anche se il loro è un linguaggio veloce e d’impatto e quando stai facendo fatica è complicato scattare belle foto o pubblicare filmati con la musica giusta. C’è bisogno, però, di una nuova arte della narrazione alpinistica, che esalti contemplazione, profondità e intimità della montagna».
Ci sarà, a 58 anni, il suo settimo tentativo invernale sul Manaslu?
«Non ho appeso l’alpinismo al chiodo e tornerò sul Manaslu perché so di poter chiudere un cerchio non con questa montagna ma con me stesso. Farò una preparazione particolare sin dall’autunno e quest’inverno spero di raccontare a chi mi segue, anche sui social, una storia diversa dalle sei precedenti».