L'intervista
giovedì 9 Ottobre, 2025
Raffaelli scettico sulla pace a Gaza: «Quello di Trump più che un piano è una traccia»
di Massimo Furlani
Il politico e diplomatico trentino, fautore dell'accordo in Mozambico negli anni '90: «Nessuna parola sulla Cisgiordania»

Bene che si parli di un cessate il fuoco, ma per una pace duratura la strada è lunghissima e servirà sciogliere diversi nodi. Questa è l’analisi di Mario Raffaelli, ex parlamentare, già sottosegretario agli Affari Esteri e candidato alle ultime europee con Azione, sul piano di pace per Gaza proposto dal presidente americano Donald Trump e che si sta discutendo in questi giorni in Egitto. Durante la sua carriera politica e diplomatica, Raffaelli è stato uno dei principali fautori degli accordi di pace che nel 1992 posero fine alla guerra civile in Mozambico.
Raffaelli, un commento sul piano di pace per Gaza di Trump?
«Diciamo che più che di un piano stiamo parlando di una traccia, un’agenda di punti che oltre ad essere discussi in questi giorni andranno anche riempiti dei dettagli. Da un punto di vista generale il giudizio non può che essere comunque positivo, perché per la prima volta si parla di porre fine a questo disastro mediante il dialogo, quindi c’è solo da sperare che il discorso vada avanti facendo anche la giusta pressione».
Entriamo nel dettaglio dei punti sul tavolo delle trattative.
«Io divido quella che è l’attuale proposta discussa in tre fasi. Quella iniziale e di più facile implementazione è quella riguardante lo scambio di prigionieri e la cessazione delle ostilità, che sarebbe già un enorme passo avanti. Soprattutto sul tema prigionieri, se l’accordo verrà firmato vorrà dire che le due parti si saranno trovate su punti divisivi, penso ad esempio al fatto che una delle richieste di Hamas è il rilascio di Marwan Barghuthi a cui invece il governo israeliano si oppone».
E la seconda fase?
«La seconda è una fase più complicata, quella del ritiro graduale dell’esercito israeliano dalla Striscia. Un passaggio necessario soprattutto per aprire la strada agli aiuti umanitari dell’Onu, una premessa fondamentale alla ricostruzione di un governo palestinese».
L’ipotesi che Trump avrebbe avanzato è quella di una transizione capeggiata da lui e da Tony Blair.
«Questo lo trovo uno degli aspetti più assurdi e sbagliati di questo piano. Non tanto perché Blair sia una figura odiata dal mondo mediorientale, cosa che in realtà è vera “a metà” visto che ha anche diversi sostenitori, ma perché un governo transitorio presieduto da potenze straniere sembra più una rievocazione di epoca coloniale. Sarebbe un errore: un governo transitorio deve per forza coinvolgere ampie personalità del mondo palestinese per risultare credibile anche agli occhi degli israeliani. Parlo anche di generali, nella mia esperienza ho potuto osservare come spesso siano queste figure a proporre le soluzioni politiche migliori».
Qual è invece la terza fase a cui si riferisce?
«Quella più difficile in assoluto da attuare, quella di una pace duratura e definitiva. Qui il piano è molto vago e ambiguo: si fa riferimento al fatto che, soddisfatti una serie di requisiti, le “aspettative di statualità palestinesi saranno prese in considerazione”. Inoltre manca un tema centrale, è assente qualsiasi riferimento alla Cisgiordania. Trump si è preso l’impegno formale di impedirne l’annessione a Israele, ma finché questo punto non verrà affrontato seriamente non si arriverà davvero a una pace definitiva».
Ma è veramente possibile questa pace definitiva dopo il 7 ottobre e quello che ne è seguito?
«Ci saranno sicuramente tanti tentativi per far saltare un processo di questo tipo, come ci sono stati in tutti questi decenni. Tentativi che, finora, hanno sempre avuto successo, perché tanto in Palestina quanto in Israele c’è una parte importante di popolazione contraria ai due popoli e due Stati. Lo slogan “Dal fiume al mare” di cui si sente parlare in questi giorni appartiene in un certo senso a entrambe le parti, e questo è un tema che non può essere ignorato. Si deciderà tutto sulla creazione di una leadership che sia realmente intenzionata a raggiungere una pace duratura, e su questo tema dovrebbero concentrarsi gli sforzi di tutti perché al momento non c’è alcun presupposto, da una parte abbiamo Netanyahu e dall’altra un’autorità palestinese screditata da quanto successo».
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