Campi Liberi
venerdì 29 Agosto, 2025
Plestia Alaqad, giornalista in prima linea sulla Striscia: «A Gaza un genocidio trasmesso in diretta»
di Simone Casciano
La reporter, autrice del libro «The eyes of Gaza»: «Israele ha ucciso 269 colleghi»
È stata uno dei volti più riconoscibili dell’impegno dei giornalisti palestinesi nel documentare l’invasione israeliana e le sue atrocità fin dal 2023. Se molti suoi colleghi, tra cui recentemente Anas Al Sharif, hanno pagato con la vita questo impegno, Plestia Alaqad è riuscita ad un certo punto a lasciare Gaza, una decisione difficile e sofferta, spostandosi in Libano. Anche lì però, l’ha raggiunta la furia della guerra mossa di Israele a tutto quel pezzo del Medio Oriente. Plestia Alaqad ha voluto allora raccogliere quanto raccontato per mesi dell’invasione e dei bombardamenti israeliani su Gaza in un libro «The eyes of Gaza» e continuare il suo impegno per denunciare il genocidio in corso. Un diario di guerra che lei definisce un «diario di resilienza», la sua personale, ma anche quella di tutto il popolo palestinese e dei gazawi in particolare. In un contesto come quello di Gaza, in cui Israele da prima ancora dell’invasione proibisce l’accesso ai giornalisti internazionali, l’impegno di reporter sul campo come Plestia Alaqad, Anas Al Sharif o Motaz Azaiza è diventato tanto cruciale quanto pericoloso. La loro voce e i loro scatti, le uniche persone capaci di raccontare cosa veramente accade in quel pezzo di terra straziato dai bombardamenti e nella morsa della fame.
Com’era la vita a Gaza prima dell’invasione e dei bombardamenti israeliani?
«La vita a Gaza è sempre stata difficile, segnata da restrizioni e dal costante controllo dell’occupazione. In ogni momento Israele può bombardare, lasciandoci in una condizione permanente di insicurezza e incertezza. Eppure, nonostante tutto, i palestinesi amano la vita. Abbiamo reso Gaza il luogo più bello ai nostri occhi, imparando a custodirla, anche se ci viene negato tanto».
Come sono cambiate le cose dall’invasione?
«Sono peggiorate drasticamente. Israele affama, uccide e costringe allo sfollamento i palestinesi, rendendo la vita insopportabile e imprevedibile. Nessuno sa cosa accadrà domani. Non avrei mai pensato di vivere in un mondo in cui un genocidio viene trasmesso in diretta su TV e social, dove scorrendo il telefono si incontrano immagini di neonati che muoiono di fame o bambini costretti a raccogliere i propri arti in sacchetti di plastica».
Qual è la situazione oggi a Gaza?
«Sono quasi due anni che il genocidio continua e la situazione non fa che peggiorare. Definirla terribile è riduttivo. Israele affama deliberatamente la popolazione: i bambini muoiono di denutrizione, i corpi delle persone appaiono sempre più fragili, minati dalla fame e dalle malattie. Tutto questo mentre continuano i bombardamenti e gli sfollamenti. Le frontiere restano chiuse, i palestinesi non possono uscire e gli aiuti umanitari vengono bloccati».
Le manifestazioni in Occidente per chiedere il cessate il fuoco stanno aiutando? Cosa possono fare le persone comuni per sostenere i palestinesi?
«Vedere uomini e donne di culture diverse scendere in piazza per sostenere la Palestina mi restituisce fiducia nell’umanità. Nessuno dovrebbe accettare di vivere in un mondo dove un genocidio è tollerato. L’occupazione dura da oltre 75 anni, e la libertà non arriverà dall’oggi al domani. Israele gioca sull’allungare i tempi, sperando che la gente smetta di parlare. Per questo proteste e mobilitazioni sono cruciali: non danno risultati immediati, ma tengono viva la coscienza collettiva».
Quali sono i rapporti tra palestinesi di Gaza e della Cisgiordania?
«Purtroppo siamo divisi non solo da confini, ma da esperienze diverse. L’occupazione assume forme differenti, ma ovunque è fatta di restrizioni e controllo. Non possiamo nemmeno visitarci liberamente. Per spostarsi da Gaza alla Cisgiordania servono permessi che, nella quasi totalità dei casi, vengono rifiutati».
Il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo fondamentale verso la pace? È ancora possibile una soluzione a due Stati in un territorio così frammentato?
«In questo momento la priorità è fermare il genocidio: questo è molto più urgente del riconoscimento. Non si può riconoscere uno Stato senza prima riconoscere le sofferenze e le lotte del suo popolo».
Negli ultimi giorni è stato ucciso Anas Al Sharif. Lo conosceva? Cosa pensa delle accuse contro di lui? Da giornalista si è sentita un bersaglio a Gaza?
«Israele ha ucciso almeno 269 giornalisti. Secondo il progetto Costs of War della Brown University, a Gaza dal 2023 sono stati assassinati più giornalisti che in tutte le guerre moderne messe insieme: dalla guerra civile americana alla Prima e alla Seconda guerra mondiale, dalla Corea al Vietnam, fino all’Afghanistan post-11 settembre. Perché colpire così tanti cronisti, se non per silenziare la verità?»
Su cosa sta lavorando adesso?
«Sto completando un master presso l’Università Americana di Beirut, grazie alla borsa di studio dedicata a Shireen Abu Akleh. Parallelamente scrivo per diverse testate per continuare a dare voce alle storie palestinesi e utilizzo i miei canali social, in particolare Instagram, per sensibilizzare e coinvolgere un pubblico sempre più ampio nella lotta per la giustizia».
Qual è il suo sogno per Gaza e per tutti i palestinesi?
«Sogno di vedere i palestinesi vivere liberi sulla propria terra, senza occupazione, senza bombardamenti, senza uccisioni».
Quali sono i passi necessari per costruire una pace duratura nella regione?
«Il primo passo imprescindibile è fermare le forze di occupazione israeliane: smettere di uccidere, affamare, bombardare e sfollare i palestinesi».
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