Il dibattito

venerdì 9 Giugno, 2023

Mostri, vittime, colpe: la violenza di genere e le parole dette in tv

di

Il femminicidio di Senago e il dibattito (che non c’è) sulle cause. Dorigotti (Alfid): «La rieducazione degli uomini è possibile»

La cronaca, cruda, inevitabilmente irrompe nella stanza. Quella storia lì, su cui l’inchiostro si spreca e su cui in tv si deborda nell’incontinenza, pone tutti davanti all’abnormità della violenza di genere. Seduti uno accanto all’altro, nei gruppi di rieducazione per uomini che agiscono violenza coordinati dal centro CambiaMenti, ognuno si ritrova a fare i conti con sé. Non ci sono mostri, quelli restano solamente nei titoli a sei colonne utili solo a sintetizzare in sei lettere faccende ben più serie. Ci sono piuttosto azioni, comportamenti, scelte. Ci sono responsabilità affrontate e da affrontare, senza scorciatoie. E ci sono ex partner (o partner) con cicatrici reali e simboliche da guardare bene, riconoscere, accettare.
Il femminicidio di Senago, nella sua drammaticità, pone davanti agli occhi di tutti i limiti sociali e culturali del racconto, della ricomposizione possibile e della comprensione delle radici profondissime della violenza di genere. Giulia Tramontano, 29 anni e incinta di sette mesi, è stata ammazzata a coltellate sabato 27 maggio. A ucciderla il compagno Alessandro Impagnatiello, barista di trent’anni del lussuoso Armani Bamboo, locale borghese e per aspiranti borghesi milanesi. Un omicidio, il quarantacinquesimo femminicidio da inizio anno, che dimostra la trasversalità del problema e l’inadeguatezza delle parole utilizzate.

«Nell’emotività non sempre si riesce ad approfondire la questione di fondo, andando alle radici del problema» riflette Sandra Dorigotti, presidente di Alfid (l’Associazione laica famiglie in difficoltà) che con Fondazione Famiglia Materna gestisce dal 2010 il centro di rieducazione per uomini che agiscono violenza. «Le dichiarazioni nette e ideologiche, unite al fortissimo trasporto, riducono la capacità di vedere ciò che accade prima e durante le relazioni», aggiunge Dorigotti. Tant’è che la pm, a latere della conferenza stampa di annuncio della confessione dell’omicida (che nelle settimane precedenti, si scoprirà, cercava online veleno per topi) si rivolge alle donne: «La vicenda – ha detto la magistrata – deve insegnare a noi donne che non bisogna mai andare all’incontro di spiegazione. È un momento da non vivere mai perché estremamente pericoloso». Come a sottintendere che la violenza maschile è irrecuperabile, quasi patologica, e spetta piuttosto alle vittime evitare d’essere tali. Una sorta di responsabilità dinnanzi alla morte (o in casi meno drammatici dinnanzi ai pestaggi refertati) che non è tanto diversa dalla responsabilità attribuita a una madre nell’educazione di un figlio che finisce per ammazzare la compagna incinta. «Sì, signora, suo figlio è un mostro» ha detto con occhio lucido Mara Venier in diretta tv commentando le lacrime di Sabrina Paulis, la mamma di Alessandro Impagnatiello. «Chiedo perdono, da madre, a tutta la famiglia per aver fatto un figlio così. Ale non era così», ha detto la donna prostrata a La Vita In Diretta, il programma di Rai 1 condotto da Alberto Matano.

Uomini mostri irrecuperabili, donne vittime a cui va spiegato come stare al mondo per non farsi ammazzare, madri colpevoli (e padri manco menzionati) poiché uniche depositarie della cura e dell’educazione dei figli adulti. Le parole, spesso sbagliate, diventano parte di un problema negato. «Siamo tutti impregnati di una cultura maschilista – riflette Dorigotti – la colpevolizzazione della vittima, la colpevolizzazione della madre, la cultura della performance e del successo maschile che non prevede il fallimento, la fragilità e non consente di saper affrontare anche i momenti di crisi». Un’angolatura complessa, di un fenomeno altrettanto complesso, che tuttavia non può essere evitata se, realmente, la piaga della violenza di genere la si vuole affrontare.

«L’esperienza di CambiaMenti – prosegue la presidente di Alfid – che è una esperienza faticosa anche per le operatrici e gli operatori coinvolti, aiuta viceversa a evitare una lettura ideologica e astratta, affrontando di petto il cambiamento e le radici sociali e culturali della violenza». I gruppi – oggi sono seguiti circa venti uomini che chiuderanno il loro ciclo fra 8-10 mesi – cercano così di eradicare i semi dei comportamenti violenti. «Cerchiamo di riflettere sulla difficoltà di incontrare sé stessi, di incontrare l’intimità di sé e parlarne, per capire cosa succede e come mai si arriva per meccanismi narcisistici, in parte legati a una cultura maschilista, a reagire al fallimento in modo violento». Per Dorigotti è questione di educazione, di retaggi perniciosi che non conoscono censo o età, si ripropongono.

«Anche se – riflette Dorigotti – non possiamo negare che c’è una presa di coscienza, anche nella genitorialità». Ma da dove si parte? «Dalla formazione e dalla conoscenza, dalla riflessione sui sentimenti, dalla conoscenza di sé – riflette Dorigotti – Sin da bambini». Perché sì, Codice Rosso ha fatto molto, continua la presidente di Alfid, ma oltre alla maggiore sicurezza per le donne è tempo di agire sulla rieducazione maschile come forma di prevenzione.
La scuola, alle prese con la trasformazione di sé, torna allora alla sua centralità. Ma come e in quale modo percorsi di educazione di genere possono essere declinati? Qui, in Trentino, per la verità la scuola fu laboratorio d’avanguardia ma simili percorsi furono troncati a gennaio 2019, praticamente tra i primi atti della giunta provinciale eletta nell’autunno 2018. Paolo Pendenza, presidente dell’associazione dei dirigenti scolastici (Anp) da sempre si interroga sul futuro della scuola e, nel pieno di un dibattito sul femminicidio di Senago, immagina ciò che si può fare. «L’uso del linguaggio non è mai neutro – premette – convoglia anche idee, concezioni del mondo e delle relazioni. Quindi il linguaggio è una delle prime cose a cui prestare attenzione». Ciò detto, il dirigente cita lo spazio che già esiste, quello dedicato a Educazione civica e alla cittadinanza. «Una materia che c’è già ed è stata introdotta da pochi anni – riflette – Un contenitore in cui si accompagna anche i ragazzi nell’educazione a un rapporto che sia consapevole, rispettoso».

Esistono tuttavia dei limiti. Affidare una questione tanto complessa in uno spazio abitato da molteplici altre questioni (cambiamento climatico, trasformazioni sociali e via dicendo) rischia di annacquare le intenzioni.
E allora? «Allora credo sia forse nell’agire quotidiano, nella relazione e nell’autorevolezza dei docenti che sono sempre di più punto di riferimento dei ragazzi che si può affrontare il tema della relazione e dell’affettività, attraverso il valore dell’esempio». La lezione della pandemia, spiega Pendenza, ha mostrato quanto la Scuola, con la s maiuscola, sia sempre più luogo di relazioni e socialità anziché luogo di migrazione asettica di nozioni e contenuti. «I ragazzi e le ragazze – conclude – ne hanno bisogno».