Cinema

mercoledì 2 Novembre, 2022

Federico Demattè: «Da Povo, alla periferia di Milano fino al red carpet di Venezia, racconto la mia generazione che nei legami trova l’antidoto al nichilismo»

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Gli inizi nella pubblicità, le notti insonni a filmare la Milano periferica e multietnica di «Inchei» e i nuovi lavori. «Viviamo consapevoli dell’incertezza della nostra vita, saranno le comunità a salvarci». Il giovane regista premiato a Venezia si racconta

Federico Demattè risponde al telefono da Milano. Dorme da qualche giorno sul divano di uno dei suoi amici, una sosta breve prima di tornare a Roma. La sua vita adesso è così, in viaggio costante tra le due città inseguendo nuovi progetti. Federico Demattè, 26 anni di Povo, ha vinto il premio «miglior film» e «miglior regia» alla settimana internazionale della critica del festival di Venezia nel 2021 con la sua prima opera, il cortometraggio «Inchei». Da allora i suoi mesi sono diventati intensi, fatti di tanti lavori. L’ultimo, presentato alla Festa del Cinema di Roma, è «Battima» un cortometraggio realizzato per Emergency.
Federico, Battima di cosa parla?
«È la storia di un ragazzo, Kimutai, che si trova sulla spiaggia di Ostia. È un omone alto 2 metri muscoloso e attraente, i bagnanti sono attratti dalla sua presenza. Una ragazza lo invita a una festa, un bambino si avvicina incuriosito dal suo fisico. Queste curiosità iniziano a creare delle diffidenze negli altri bagnanti. Soprattutto il padre del bambino vedendolo parlare con questo straniero si impensierisce e lo approccia aggressivamente. Da lì la situazione degenera in una rissa. Insomma, è la storia di come in un giorno normale Kimutai si trova a dover combattere l’odio delle persone».

Un’immagine dal set di «Battima»

Cosa avete voluto raccontare con questo corto?
«È la storia di un ragazzo che aspira a una vita, a una quotidianità diversa dalla sua routine fatta di stenti e pregiudizi. Lui si avvia verso questo sogno d’amore con la ragazza, ma viene spezzato dall’odio fortissimo che gli si riversa contro».
Lei arriva da lavori praticamente autoprodotti, è stato diverso lavorare per Emergency e con un budget importante a disposizione?
«Sì, perché per la prima volta ho fatto un lavoro narrativo con un budget importante. Ho dovuto anche affrontare un mondo nuovo rispetto alla Milano a cui sono abituato. Abbiamo girato alla spiaggia di Coccia di Morto e poi a Roma il cinema è davvero un’industria consolidata a differenza di Milano. Ho scoperto nuove dinamiche di relazione e mediazione differenti. Soprattutto in post-produzione tra video, audio e color mi sono scontrato con un processo lungo e faticoso. Ero abituato a fare tutto da solo, scegliere la mia direzione, mentre lavorare con altri professionisti ti aiuta, ma significa anche imparare a relazionarsi con gusti e idee diverse. Sicuramente mi ha fatto maturare come regista».
Facciamo un passo indietro Federico e raccontiamo la sua storia: ha lasciato prestissimo Trento, appena diplomato, per inseguire la musica con la sua band tra Berlino e Londra, le notti passate nei club a suonare, i giorni divisi tra tanti lavori, quando ha capito che la sua strada era quella del cinema?
«In realtà il mio primo sogno era quello di fare lo scrittore (ride). Ho anche scritto un libro! (Jennifer salta giù, La Gru, 2018 ndr). Scritto il libro però ho iniziato a guardare un sacco di film, mi mangiavo le pellicole italiane: Fellini, De Sica, Visconti. Poi ho scoperto Paul Thomas Anderson e ho capito che era quello che volevo fare. Sentivo la voglia di mettere in scena le cose che stavo scrivendo. Volevo rendere vive le parole, rendere fisiche le emozioni, darle a qualcuno che potesse interpretarle e farle sue».
A questo punto ha scelto la Naba di Milano, perché non Roma?
«La scelta l’ho vissuta con irrequietezza. Avevo paura di aver fatto la scelta sbagliata, perché comunque la base principale dell’industria cinematografica italiana è a Roma. Però ero fortemente convinto che prima ancora di lanciarmi nel mestiere del regista dovevo riaccordarmi con lo spirito della contemporaneità. Avevo bisogno di svecchiare il mio approccio da romanziere e il mondo dei videoclip, della moda e del fashion di Milano mi sembrava perfetto per sviluppare il mio gusto per la camera».
Poi si è fatto le ossa con la pubblicità?
«Si è stata una palestra molto tosta in cui ho cominciato a sviluppare il mio gusto, il mio punto di vista».
Intanto però già pensava al suo primo corto d’autore?
«Si si avevo già provato delle cose narrative di breve formato, poi ho iniziato a mettere via i soldi dei lavori con le pubblicità. Contemporaneamente in me nasceva «Inchei» che è la storia di una partenza. Che poi è il racconto di cose che io stesso avevo vissuto, il mio periodo dell’adolescenza è tornato in maniera prepotente nella scrittura. Penso che avessi bisogno di avere un nuovo rapporto con quel periodo burrascoso».
Una storia personale quindi declinata però in quella di un ragazzo rom della periferia di Milano in partenza per Berlino
«Si ho conosciuto Armando, un ragazzo Rom della mia zona di Milano. Gli propongo di essere il protagonista di questa storia, lui mi racconta la sua: vive con la madre in una roulotte da sola con i figli fuori dalle comunità, e scopro che stava a sua volta pensando di partire davvero verso Barcellona. Quindi alla fine il mio corto, nato da un mio testo, è stato anche un imparare a farsi insegnare da questo ragazzo e dai suoi amici che sono diventati protagonisti del corto e partecipavano attivamente alla nascita delle situazioni della pellicola. Abbiamo fatto un lavoro di cinema verità, sia da un punto di vista della scrittura, le scene le scrivevo la notte dopo aver passato la giornata con loro, sia dell’estetica del film, abbiamo girato con la telecamera in spalla con inquadrature molto veloci».

La locandina di «Inchei»

Su quel set c’era anche un altro trentino, il direttore della fotografia Filippo Marzatico?
«Seguivo i suoi lavori su Instagram sapevo che era trentino come me. Allora gli ho scritto su Instagram per convincerlo ad aiutarmi in questa avventura. Poi c’è stata pausa covid e a settembre 2020 finalmente abbiamo girato».
Ha sfruttato la connessione trentina?
(Ride) «Chiaramente in quel primo messaggio c’è sicuramente stata un’intesa poi è un motivo di appartenenza in questo ambiente».
Com’è stato quel set?
«Magico, un circo a tutti gli effetti, perché Armando stava davvero per partire, sua madre all’improvviso si trova un’intera troupe in casa, non se lo aspettava (ride). Era la mia prima volta a dirigere e c’erano tanti attori, tante comparse e tanti tecnici. Immagina tre macchine in giro per Milano da un posto all’altro a gestire questi ragazzini esaltatissimi dal fatto di essere davanti alla telecamera, un circo mega emotivo e mega confusionario».
Un circo che poi vi siete portati dietro a Venezia alla presentazione del corto che poi ha vinto?
«Si siamo andati alla Biennale e abbiamo portato anche i ragazzi del film, se io non ero abituato figuratevi loro! Però è stato bellissimo ritrovarci tutti insieme, dalla periferia di Milano al red carpet di Venezia».
Una cifra del suo cinema e del suo  modo di lavorare è il tema dell’amicizia, della fratellanza?
«È vero, poi ogni tanto capita senza neanche accorgersene, scopri che tornano in continuazione perché fanno parte di te. Il tema della compagnia, di un’amicizia stretta, a volte molto maschile, anche chiusa delle volte, di compagnie di amici che si sentono fratelli e non si abbandonerebbero mai per nulla al mondo è forte in Inchei e anche in un altro lavoro che ho fatto e che deve ancora uscire (Pinoquo ndr). Questa tematica della compagnia prettamente maschile entra poi in contrasto con altre dinamiche come quelle familiari, o con la scoperta del mondo dell’amore e dei sentimenti. Come in ogni romanzo di formazione è la scoperta di tematiche che accompagnano tutta l’esistenza di una persona».
Queste tematiche vengono fuori dalla sua vita tra Trento e Povo?
«Si chiaramente la mia adolescenza è stata segnata dall’avere avuto una compagnia che è stata la cosa fondamentale per me, una compagnia molto grande, di soli maschi. Quindi un po’ chiusa verso sé stessa. A volte è una casa, a volte una base ma anche una fortezza, altre volte invece è un’esclusione da altre cose. È sicuramente un valore, crei dei legami indissolubili, costruisci un patto di sangue, il mio prossimo corto si apre proprio con una canzone che parla di questo di un patto di sangue tra giovani “siamo tra noi per noi”, questi legami però a volte diventano onnipresenti, sovrastano tutto».
C’è anche il tema dell’evasione, della necessità di scappare?
«Si c’è il tema del bisogno di evadere dalla provincia, provare a vedere cosa c’è oltre certe barriere, barriere fatte di pregiudizi, di piccoli quartieri e piccole città. È interessante il conflitto che si crea in una dinamica di gruppo. Il sogno di evasione, di fuga. Scoprire sé stessi al di fuori dalle influenze degli altri e delle comfort zone quotidiane».
Sono momenti che in molti conoscono, ma è ancora così l’adolescenza?
«Assolutamente sì, sono tematiche archetipiche che tutti viviamo, e vedo che tra i giovani c’è sempre più bisogno di aggregazione. Certo magari è un’aggregazione che passa anche dagli strumenti digitali, però lo vedo che c’è un bisogno molto forte di avere un’unità sostanziale, di avere amicizie fraterne. Nei tempi in cui viviamo c’è una forte depressione e un forte nichilismo e tutti abbiamo bisogno di unirci. Guarda anche la trap o i collettivi musicali milanesi, la forza della comunità è il primo nemico della solitudine e della tristezza ed è la cosa più importante. Viviamo consapevoli dell’incertezza della nostra vita, di quelle degli altri, viviamo subissati di informazioni, il post-moderno del post-moderno, strati su strati di vissuto, lo spettro dell’annientamento. A tutto questo la compagnia si oppone con una promessa di salvezza. Saranno le comunità a salvarci».
Emerge anche un grande bisogno di comunicare dai protagonisti dei cortometraggi, è un tratto autobiografico?
«Fin da piccolo ho avuto bisogno di esprimere, ma un bisogno disperato, ho bisogno di gridare, di dire “io sono qui voi dove siete?”. Io penso che l’espressione di sé sia un gioco di vanità e di egocentrismo certo, però anche un richiamo a trovare dei propri simili e dare ad altri qualcosa in cui possano ritrovarsi e riconoscersi e costruire quindi un senso di comunità. La vita è difficile l’arte è un bel modo per provare a salvarsi».
Adesso è al lavoro sul primo lungometraggio?
«Si sto lavorando al mio primo lungometraggio, stiamo scrivendo la sceneggiatura, mi stanno aiutando altri due sceneggiatori, ma per ora non posso dire nulla, no comment!» (ride).
Una grande avventura?
«Si sì non vedo l’ora!»