la storia

martedì 19 Marzo, 2024

Da Arco a Napoli, Michela Bresciani è la prima donna italiana a ricevere il vaccino anti-melanoma

di

Prima dell’arrivo di queste cure, l’aspettativa di vita della 45enne era di due anni al massimo: «Vorrei far capire l’importanza della scienza»

Un grande coraggio, tanto grande quanto la fiducia nella scienza. Michela Bresciani, 45 anni, di Arco, mamma di due ragazze di 15 anni, lotta da circa un anno contro una forma di tumore della pelle molto aggressiva, un melanoma che invisibile le si era annidato nell’orecchio. Ora Michela però è tornata a sperare e a pensare al futuro: è lei la prima donna italiana ad aver ricevuto il vaccino contro il melanoma, in fase avanzata di sperimentazione a livello mondiale. Una possibilità che le è stata offerta solamente a Napoli, perché lì si trova l’Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, un centro di eccellenza per questo tipo di patologie oncologiche. All’Istituto Pascale lavora un luminare italiano nel campo della cura e ricerca sui tumori della pelle, il professor Paolo Ascierto, direttore di Oncologia Medica Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative.
Michela racconta con dolcezza e senza drammi la sua odissea, un viaggio nella cura che è diventato anche un viaggio attraverso l’Italia, dal Trentino a Napoli, dove si reca una volta ogni tre settimane per ricevere le cure, sottoponendosi ai cicli di immunoterapia.
«Pensavo di avere un’otite, ma non passava mai – ricorda Bresciani – non sentivo da un orecchio e una notte addirittura persi del sangue. Così decisi di fare accertamenti. Inizialmente non sembrava nulla di grave, tanto che mi dicevano che potevo aspettare a togliere quello che pareva un neo dentro l’orecchio. Ma io ero impaziente di toglierlo, perché volevo tornare a sentire bene da entrambe le orecchie». Ecco quindi che Michela si sottopone all’intervento di rimozione del neo dentro l’orecchio, ma invece di risolvere il problema, l’operazione ne apre altri, peggiori. Da Trento il suo referto istologico viene mandato proprio al Pascale di Napoli: un tumore del genere infatti è una cosa assai rara, e serve una mappatura completa della situazione. Dopo un mese il referto è una doccia gelata: melanoma. «Dalla fine di giugno alla fine di settembre però non avevo ancora un piano di azione, non avevo un appuntamento ma sapevo che non volevo perdere tempo» continua Michela, che quindi fa ciò che chiunque farebbe quando non si sa bene da dove cominciare: una ricerca su Google, per capire se esistesse in Italia qualcuno che potesse aiutarla. Così è spuntato il dottor Ascierto. «Contattai la segreteria per un appuntamento, inviai tutto l’incartamento relativo alla mia situazione, e mi dissero che sarei stata richiamata a seconda dell’urgenza rilevata dalle carte. Inviai il tutto il giovedì pomeriggio, il venerdì mattina fui chiamata perché il professore voleva vedermi subito. Riuscii a scendere in treno solo il lunedì». Di lì a poco si esegue l’intervento per la rimozione dei linfonodi e la ricostruzione di parte del padiglione auricolare. «La situazione è apparsa subito più grave di quella che avevano prospettato a Trento: il mio melanoma è metastatico, prima dell’arrivo di queste cure l’aspettativa di vita era di due anni al massimo. Il professor Ascierto con grande delicatezza e umanità mi ha parlato dello studio sul vaccino e, senza pensarci un attimo, ho subito accettato. Nel frattempo ho iniziato l’immunoterapia».
«Ho deciso di affidarmi all’equipe dell’Istituto Pascale guidata dal dottor Ascierto, che non smetterò mai di ringraziare – va avanti Michela – perché mi fido di lui e della scienza. Questo vaccino mi ha dato speranza, e anche se durante la sperimentazione due terzi delle persone ricevono il farmaco e un terzo il placebo, io sono convinta, credo fortemente, di ricevere il vero vaccino, questo perché si sta male a seguito della somministrazione». Il percorso di cura è faticoso, non indolore. A maggior ragione se subito dopo il ciclo di farmaci bisogna tornare su un treno e tornare a casa a 800 chilometri di distanza. «Impegnativo, certo, anche perché vado e vengo da sola, nonostante le mie amiche non mi lascerebbero mai sola – dice Michela Bresciani – ma lo faccio per le mie figlie, perché vorrei che capissero l’importanza della scienza e che a loro volta siano coraggiose, di un coraggio che possono trovare dentro di loro».