L'intervista

domenica 25 Febbraio, 2024

Claudio Panatta, il «Panattino»: «Mai stato geloso di mio fratello Adriano. Sinner? Un traino»

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Oggi dirige il circolo tennis dei Parioli a Roma: «Mio padre era il custode, ora sarebbe orgoglioso, abbiamo cento ragazzi in attesa»

Tra discese a rete e volée anche il suo tennis risuonava in quel «pof–pof» immortalato da suo fratello Adriano nel cameo del film «La profezia dell’armadillo»: «Il mio era un po’ meno bello, ma tutto sommato non era male» precisa Claudio Panatta.

Lo chiamavano «Panattino», talento ne aveva parecchio e delicatezza nell’accarezzare la palla pure; nel 1984 salì fino al numero 46 al mondo e si prese le sue belle soddisfazioni battendo giocatori del calibro di Andrè Agassi, Jimmy Arias, Josè Luis Clerc, Johan Kriek, Guillermo Perez-Roldan, Victor Pecci, Emilio Sanchez, solo per citarne alcuni.

Forse avrebbe potuto fare di più, ma sebbene essere «il fratello di» non fosse affatto un’etichetta leggera da reggere, a lui non è mai pesata più di tanto, e oggi la sua carriera di giocatore la rivive con la serenità e la consapevolezza di aver fatto tutto quello che i suoi mezzi gli hanno permesso di fare. E gli va benissimo così.

Claudio, la storia tennistica dei Panatta nasce a Roma al Tennis Parioli dove papà Ascenzio era il custode; dal 2020 lei ne è il direttore: un cerchio che si chiude come in un film…
«Penso che papà sarebbe orgoglioso che io da figlio del custode sia diventato direttore; lassù nel cielo si farà dei bei sorrisi. Quando c’era lui, la sede era vicino allo stadio Flaminio dove oggi c’è il circolo Paolo Rosi dei giornalisti; quando nel 1960 il Club si trasferì nella nuova ed attuale sede (a Largo Uberto de Morpurgo, all’interno del parco di Villa Ada, ndr), papà fu assunto dal Coni alle Tre Fontane dove gli atleti si preparavo alle Olimpiadi. Io sono cresciuto lì ma ovviamente sono legatissimo al Tennis Parioli. Tutto è nato qui».

Tra lei e Adriano ci sono dieci anni di differenza. Nel 1976, quando lui e i ragazzi vinsero la Coppa Davis, lei dov’era?
«A 16 anni ero al Centro Federale di Formia con i ragazzi più promettenti. Quando l’Italia vinse la Davis, ero in trasferta in Sudamerica con il gruppo under 16, ricordi bellissimi».

Era un bel tennis, l’eleganza del rovescio a una mano e del gioco a volo. Un altro sport…
«Sì, e oggi è assai difficile vederlo quel tennis. Si gioca a velocità doppia e non c’è proprio il tempo per preparare certi colpi. L’unico che ci riusciva era un signore svizzero di nome Roger, ma lui era un pezzo unico, una divinità del tennis».

Numero 46 nel 1984, la sua miglior classifica; cosa le è mancato per salire più in alto?
«Nulla. Sono arrivato al mio massimo, di più non potevo fare. Va detto come in quel periodo ci fossero giocatori di altissimo livello, campioni come McEnroe, Connors, Lendl, Wilander, Becker, Noah, Leconte e tanti altri, perché la lista è lunga e potrei andare avanti. Fu il periodo più prolifico di grandi giocatori, e quando vedo quei nomi nella classifica del 1984 penso “ok dai, va bene così”. Sono contento di quello che ho fatto. Non avrei potuto fare né di più né di meno».

Il momento più bello?
«Ho vissuto tanti momenti belli, e altri meno. Direi che i quarti di finale a Roma nel 1984 sono stati un momento importante per me, romano con un fratello che aveva vinto il torneo al Foro Italico nel 1976 e due anni dopo aveva fatto la finale con Borg. Non era facile andare lì e giocare a quei livelli. Persi nei quarti con l’ecuadoriano Andrés Gomez (al secondo turno Claudio aveva eliminato la testa di serie numero 2, l’americano Jimmy Arias, ndr), un campione che avrebbe poi vinto il titolo e conquistato in carriera anche uno Slam, il Roland Garros nel 1990. Fu un bel risultato. Un altro bel momento furono i quarti di finale nel 1985 sulla terra verde al WCT di Forest Hills quando, dopo aver vinto il primo set, persi al tie-break del terzo contro John McEnroe, allora numero uno del mondo (che sarebbe poi stato sconfitto in finale da Ivan Lendl, ndr): uscire tra la standing ovation del pubblico fu una gran soddisfazione, sebbene avessi perso. Mi fece molto piacere, e rimane un bel ricordo».

Le è pesato essere il fratello di un campione come Adriano?
«No. Non c’è mai stata competizione tra di noi. Lui è stato più forte, e va bene così, non ho mai sofferto per questo. Certo, sentivi la curiosità della gente nel veder giocare il fratello di Adriano Panatta, ma un giocatore non pensa a queste cose, ma piuttosto a concentrarsi e a vincere le sue partite. Tra fratelli ci può essere competizione quando giochi uno contro l’altro, ma finisce tutto lì. Succedeva anche con le sorelle Williams, che si vogliono un sacco di bene».

Insieme avete vinto tre titoli italiani di doppio: com’era giocare al suo fianco? Era un rompiscatole?
«Beh, diciamo che non era un tipo facile. Ti metteva pressione, ma era una pressione sana perché lui voleva vincere e pretendeva che anche tu giocassi bene per portare a casa il match. Quando s’innervosiva, non diceva nulla, ma faceva certe facce…ecco, diciamo che bastavano quelle, le sue proverbiali facce (ride, ndr)».

E come capitano di Coppa Davis com’era?
«Estroso e geniale. Ti trovava le soluzioni giuste. E fu proprio grazie ai suoi consigli che nel 1986 a Palermo in Coppa Davis contro il Paraguay riuscii a battere un giocatore forte come Victor Pecci in quattro set dopo aver perso il primo. Vincemmo poi quell’incontro».

Fisicamente si rischia di scambiarvi l’uno per l’altro; e in quanto a carattere?
«Lui è simpatico, spassoso e divertente, sempre con la battuta pronta. Anch’io sono un po’ così, anche se più riservato. Diciamo che non c’è tutta questa differenza, siamo molto simili».

Il tennis in Italia sta vivendo un vero e proprio boom, come avvenne negli anni Settanta. Da direttore di un circolo, questo si traduce in una crescita di iscritti alle scuole tennis?
«L’aumento di iscritti alle scuole tennis italiane è esponenziale. Sinner fa da traino per tanti ragazzi e ragazze che si stanno avvicinando al nostro sport per emulazione. Da anni noi al Tennis Parioli siamo al completo, e abbiamo oggi 80-100 ragazzi/e in lista d’attesa per entrare nella nostra scuola».

Jannik Sinner, ora numero 3 al mondo, ha scavalcato suo fratello che arrivò al 4. Tutto sommato è un bene anche per Adriano, così non gli rompiamo più le scatole. Lei che dice?
«Sono passati tanti anni, Adriano è bello tranquillo e rilassato. A 74 anni non credo proprio che stia lì a pensare a ste cose».

Dove può ancora arrivare Sinner, secondo lei?
«Può solo salire, ma non così tanto, solo di due posizioni, visto che è già il numero 3 al mondo…eh. È un talento incredibile, è determinato, è molto maturo per la sua età e sa quello che vuole; tifiamo tutti per lui, un ragazzo intelligente ed educato che piace a tutti per il suo modo di comportarsi. Purtroppo in Italia non si aspetta altro che uno faccia degli errori per dargli addosso; anche per Sinner verranno giorni difficili, perché il tennis è uno sport dove sei sempre sul filo del rasoio, ma sin da adesso dico che non si dovrà farne un dramma. Li saprà superare».

Matteo Berrettini sta per tornare. Come lo vede?
«Magari non arriverà tra i primi cinque o sei giocatori al mondo, ma risalirà. Ha ancora molto da dare».

Lorenzo Musetti sta attraversando un periodaccio.
«È in un momento difficile. Col suo team, che è valido, deve trovare l’equilibrio e la forza mentale per tornare su. È giovane e col talento che ha, ce la farà. Ne sono certo».

Mi tolga una curiosità: ma qualche bel doppietto lei e suo fratello ve lo fate ancora?
«No, col lavoro che faccio non ho tempo per giocare a tennis. Mio fratello vive a Treviso, ci sentiamo e quando viene a Roma andiamo fuori a cena. Io e Adriano ci vogliamo bene e siamo molto uniti».