l'intervista
lunedì 2 Giugno, 2025
Liceo Prati, Ceschi trasferito d’ufficio per la contrazione delle classi: «Atto dubbio e grave per il classico»
di Tommaso Di Giannantonio
Il docente di Greco e Latino: «Vedo tantissimi colleghi che rispondono alle esigenze degli studenti. Le pressioni familiari incidono sul benessere»

«Trasferimento d’ufficio». Nel lungo elenco sulla mobilità dei docenti – emanato nei giorni scorsi dal Dipartimento istruzione della Provincia – c’è anche il nome di Giovanni Ceschi, professore di Latino e Greco al liceo classico Prati di Trento, nonché presidente dell’associazione Docet. È uno dei «perdenti posto», cioè uno degli insegnanti di ruolo che a causa del calo degli iscritti sono costretti a trasferirsi in un’altra scuola.
Professore, come commenta questo trasferimento?
«Se è stato individuato un perdente cattedra, figuro io per effetto della contrazione delle classi, essendo ultimo nella graduatoria di Latino e Greco. Questo è oggettivo, ma noi contestiamo il taglio delle classi».
Non le sembra strano che sia arrivato in questo momento?
«Visto da fuori può essere visto come naturale, ma è molto grave che ci sia un perdente cattedra in Latino e Greco. Nella delibera di giunta sui “criteri per la determinazione dell’organico del personale docente” si dice chiaramente che la classe di concorso di Latino e Greco – insieme a quella di Russo – è in esubero, quindi le istituzioni scolastiche – si specifica nella delibera – “sono tenute a prestare particolare attenzione alle due classi di concorso”. In pratica i docenti di Latino e Greco hanno un livello di protezione più elevato. Quindi sì, mi sorge qualche domanda…».
Dopo la lettera della studentessa (pubblica su il T del 27 maggio) sono arrivate diverse testimonianze sul malessere vissuto da una parte di ragazze e ragazzi del Prati. Come interpreta questo grido di denuncia?
«Come un problema figlio di una società che non riesce più a dare risposte di sicurezza alle nuove generazioni e che quindi produce fragilità. In questo contesto la scuola fa fatica a dare certezze e sicurezza, a fronte anche dell’interferenza di fattori esterni che agiscono sulla scuola».
Quale deve essere l’obiettivo della scuola?
«Come insegna Seneca, quello di preparare alla vita, e la vita ha logiche e dinamiche molto spietate. La scuola ha il dovere, in senso buono, di essere ostacolo, fermo restando la necessità costante di essere vicini alle persone, umanamente. Ma dobbiamo anche dire con chiarezza che la vita – fuori – ha esigenze alle quali dobbiamo preparare gli studenti, altrimenti rischiamo di creare fragilità nell’approccio all’esistenza. Sono due polarità in costante dialogo: se ci spingiamo solo sul versante relazionale ed emotivo ci dimentichiamo che la scuola è anche preparazione a una vita che non regala niente a nessuno. Ogni giorno al Prati ci diciamo che serve la giusta serietà e serve tanta umanità, che c’è. Come in tutte le scuole, però, esiste qualche criticità, acuita dall’enorme esposizione mediatica del Prati: da sempre il Prati è sotto i riflettori. Fa bene Degasperi a chiedere di vedere cosa succede altrove».
Ma perché questo grido è partito proprio dal Prati?
«Uno dei motivi è, appunto, la fortissima esposizione mediatica. Ma c’è anche un altro motivo: al Prati c’è un continuo mettersi di fronte al proprio limite. Da noi arrivano tanti studenti che hanno attitudini spiccate, le eccellenze delle scuole medie, e si ritrovano in un contesto impegnativo. Quando cominciano a scontrarsi con la difficoltà di alcune discipline come Latino, Greco o Scienze, fatte a certi livelli, questa impatta di più rispetto ad altre materie. A volte può costituire un ostacolo, seppur apparente, a fronte di un’elevata aspettativa da parte delle famiglie, che chiedono certe performance. Ecco, a fronte di tante pressioni sia a livello familiare che a livello scolastico, può sorgere un problema. Se poi si intersecano con altre difficoltà, uno studente rischia di sentirsi schiacciato. Ma sono situazioni particolari che non possono essere generalizzate».
Cosa direbbe alla studentessa della lettera?
«Che abbiamo un’enorme comprensione per il suo essere persona, oltre che studentessa. Le direi anche che, forse, sarebbe stato più opportuno esplicitare questa sofferenza in un contesto familiare o scolastico, cercando una risposta. Io continuo a vedere tantissimi colleghi che rispondono alle esigenze degli studenti. Non si può dipingere l’insegnante del Prati come un mostro che perpetua ansia: questa è un’immagine lontanissima dalla realtà».
C’è qualcosa, forse, su cui il Prati deve fare più attenzione?
«Io non ho mai conosciuto una preside con una tale umanità. Non vorrei che fosse questa apertura al dialogo che abbia determinato il problema. Se abbiamo sbagliato qualcosa? Sicuramente può succedere che determinati segnali vengano sottovalutati. Ma la volontà di coloro che lavorano al Prati è quella di ascoltare continuamente gli studenti. La persona non è il voto di una prova. Può succedere che in anni di lavoro, o perché si è distratti o perché non si è riusciti a cogliere certi segnali, qualche studente possa essersi sentito non valorizzato».
Il metodo di insegnamento di alcuni potrebbe essere andato oltre certi limiti?
«Non più né meno rispetto ad altre scuole. Le materie del classico sono bellissime, ma richiedono qualcosa di più dello studio: non basta la conoscenza, ma ci vuole competenza, cioè la capacità di muoversi in una disciplina. Il Prati fa questo. Se è successo che qualche collega abbia fatto qualche battuta di troppo o sia andato oltre nel giudizio sulla singola verifica o sulla singola persona, ha sbagliato. Come può capitare di sbagliare in altre scuole. Ma quello che sento nei corridoi è un amore profondo per quel che facciamo e per le persone che incontriamo. Non è vero che al Prati c’è un clima di terrore».