L'intervista
mercoledì 2 Luglio, 2025
Adriano Panatta: «Voglio morire 5 minuti dopo Bertolucci e fargli il gesto dell’ombrello. Sinner? Inscalfibile come le sue montagne»
di Lorenzo Fabiano
Il celebre tennista si racconta: «Il mio Wimbledon? Paolo Villaggio era il mio finto coach. Per vincere con Alcaraz Jannik deve servire almeno il 70-75% di prime palle»

«Tutto liscio, liscio come l’olio» avrebbe detto la buonanima di Francesco Nuti in «Donne con le gonne». E in effetti, il debutto di Jannik Sinner contro Luca Nardi sull’erba regale di Wimbledon non avrebbe potuto essere più in scioltezza, 6-4/6-3/6-0 in poco meno di due ore: «Sempre uguale Sinner, inscalfibile come la roccia delle montagne dalle quali proviene», commenta Adriano Panatta in un primo turno in cui il tennis italiano, dopo essersi lucidato gli occhi per lo spettacolo offerto da Fabio Fognini contro Alcaraz, ha però già perso per strada sia Lorenzo Musetti che Matteo Berrettini.
Adriano, partiamo dall’ultimo ballo di Fognini conclusosi con una standing ovation sul centrale di Wimbledon. Di meglio non poteva chiedere.
«Non poteva prevedere un’uscita di scena migliore. Fabio Fognini è un giocatore straordinario, con una mano meravigliosa. Non aveva nulla da perdere ed era nelle condizioni ideali per giocare bene e fare ciò che ha fatto. Tanto da mettere Alcaraz in soggezione della bellezza del suo gioco e mettergli dei dubbi in testa».
Col suo talento, avrebbe potuto essere un numero uno Fabio Fognini?
«No. Innanzitutto, lui dovrebbe sempre giocare sulla linea di fondocampo come ha fatto con Alcaraz, e non quattro metri indietro. E poi gli manca un po’ il servizio: per essere tra i primi quattro giocatori al mondo, devi almeno servire una dozzina o una quindicina di ace a partita e lui non li fa. Non li ha mai fatti. Detto questo, rimane un giocatore bellissimo da vedere, con una mano rara, una delle migliori che si siano mai viste».
Musetti e Berrettini subito out. Che dire?
«Musetti veniva da una serie di ottimi tornei sulla terra che un po’ lo hanno però prosciugato. Ha pagato lo scotto dell’infortunio e non era pronto. Lo stesso vale per Berrettini, il cui linguaggio del corpo parlava chiaro: al primo game del quinto set era già pronto per la doccia».
Sinner: tutto facile, almeno in apparenza. Eppure, la finale del Roland Garros non può non aver lasciato il segno.
«Sicuramente il segno lo ha lasciato, ma da lui traspaiono sempre equilibrio, pacatezza, e maturità. Non so quanto veramente sia così, questo lo sa solo lui. Perché dentro di lui c’è solo lui».
Non deve essere affatto facile lasciarsi alle spalle un match simile.
«È un demone che ti si appoggia sulla spalla a romperti le scatole. Io non posso dire niente, perché nella mia carriera sono stato graziato più volte, vedi quando nel 1976 al primo turno a Roma salvai undici matchpoint a Warwick, ma sono cose che succedono a tutti in uno sport come il tennis. Ed è successo anche a Sinner quando si trovò sotto 0-40 contro Djokovic in Davis: salvò i tre matchpoint e vinse la partita».
Una finale tra Sinner e Alcaraz è scritta sul copione?
«Tra loro è una bella sfida, e tutti sperano in una rivincita. La finale di Parigi è stata molto emozionate, hanno fatto cose quasi impossibili. Sono due giocatori molto diversi, gli unici diversi, Alcaraz il più diverso da tutti. Sinner e Alcaraz sono diversi per carattere, postura e reazione emotiva; Alcaraz è l’unico ad aver indotto Sinner a sbattere la racchetta per terra, cosa che non gli avevo mai visto fare prima. Niente di che, perché riesce a essere contenuto anche in quelle cose lì».
È altoatesino.
«Appunto. Sono luoghi silenziosi nell’incanto delle montagne. Lei ha mai visto un altoatesino urlare? Io no».
Vede un terzo incomodo poter rompere il duopolio?
«Gli manca ancora un pezzettino, ma il terzo dovrebbe essere Musetti. C’è una nouvelle vague di giocatori che stanno venendo su, tra questi mi piace questo ragazzo brasiliano, Fonseca: gioca molto bene, ma è ancora un bimbo, ha diciotto anni e bisogna dargli tempo. In quanto a Rune, diciamo che non lo vedo in corsa per il Premio Nobel ecco…»
Domanda da un milione di dollari: due cose che dovrebbe fare Sinner per battere Alcaraz?
«Proviamoci. Primo, fare il suo gioco e non seguire Alcaraz sul suo, perché mai si deve seguire il gioco degli altri; secondo, servire almeno il 70-75% di prime palle. Poi chi lo sa, l’erba è imprevedibile e abbiamo già visto cadere vittime illustri come Medvedev, Tsitsipas, Rune e Zverev. Se la terra ti aiuta dandoti la possibilità di recuperare, l’erba no: una palla così e una palla cosà e il match scivola via».
Lei sull’erba come si trovava?
«La detestavo, mi stava proprio sulle palle. Io ero un giocatore d’attacco, ma anche da fondocampo: sull’erba la palla rimbalzava così male che dovevi andare di continuo a rete. Non capivo se fosse tennis o uno scherzo, e infatti non ci ho mai giocato bene. Solo un anno, il 1979, ho giocato bene, ma sono stato un imbecille e ho buttato via un match che non potevo mai perdere. Per carità, può capitare, però…».
I quarti con Pat Duprè; al suo posto, lei dall’altra parte della rete vedeva già il suo amico Bjorn Borg in finale.
«Io pensavo alla domenica, ma era ancora giovedì».
A Londra con lei c’erano due suoi amici, due persone molto importanti nella sua vita: il cittì azzurro di Davis Bitti Bergamo e Paolo Villaggio.
«Assolutamente. Con Bitti, al di là dell’amicizia, c’era un rapporto speciale: sentivo la sua fiducia e mi confidavo, era un grandissimo signore, un uomo di un’educazione e di una pacatezza straordinarie, e una persona non perbene, ma perbenissimo. Purtroppo, venne a mancare pochi mesi dopo in un incidente stradale poco prima che partissimo per la finale di Coppa Davis negli Stati Uniti».
E Paolo Villaggio che ci faceva all’All England Lawn Tennis and Croquet Club?
«Di Paolo potrei raccontare un sacco di cose, era capace di tutto. Si finse mio coach, per un po’ di giorni la cosa funzionò, poi lo riconobbero e lo cacciarono (risata, ndr)».
Oggi diciamo che l’erba di Albione è meno perfida.
«È cambiato tutto. Un tempo molto veloce, oggi l’erba è molto più lenta, ma sono cambiate soprattutto le racchette, con più margine essendo più grandi e potenti. È cambiato anche il gioco: oggi sono tutti grandi ribattitori da fondocampo, i giocatori da serve and volley non ci sono più. Giocano più o meno tutti nello stesso modo, ho visto questo ragazzo francese servire a 153 miglia orarie, 246 km/h: secondo me tra quindici anni i tennisti saranno alti due metri e dieci come i giocatori dell’Nba e serviranno a trecento chilometri all’ora. Io, però, sarò già polvere. Come dire, polvere sei e polvere ritornerai…».
Ma, come lei ha già sottolineato, rigorosamente cinque minuti dopo il suo amico fraterno Paolo Bertolucci.
«Per forza. Già mi vedo la scena; siamo nella stessa stanzetta di ospedale, lui se ne va, io gli faccio il gesto dell’ombrello, gli mando un bel vaffa… e cinque minuti dopo me ne vado pure io. Sarà il momento più bello della mia esistenza (qui la risata è fragorosa, ndr)».
Vabbè… (breve sosta, ma necessaria perché dal ridere al cronista son venute le convulsioni). Ma non si potrebbe cambiare le regole del servizio; magari, togliere la seconda palla o accorciare l’area di battuta?
«Come le dicevo, io non ci sarò più e quindi la cosa non mi riguarda… (non si smette di ridere, ndr). Dai, diciamo che sulle regole del tennis io sono piuttosto tradizionalista. Però, se questi si mettono a servire a 250 chilometri all’ora finisce che non si gioca più».
E il povero Cristo davanti alla tivù che vede, niente?
«E che ci posso fare io… Cambierà canale, si guarderà un bel film».
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