L'editoriale

martedì 18 Novembre, 2025

Sinner e la nazionale di calcio: stelle e stalle

di

Luci a Torino e buio pesto a San Siro. Lo sport ci resituisce una fotografia, spettacolare ed esaltante e allo stesso tempo impietosa e deprimente: le imprese del Rosso della Pusteria e quelle degli Azzurri che non ci credono
Lorenzo Fabiano

Dalle stelle alle stalle, tutto in una serata uggiosa di metà novembre. Luci a Torino e buio pesto a San Siro. È la fotografia, spettacolare ed esaltante da un lato e impietosa e deprimente dall’altro, dello stato dell’arte: il tennis italiano vola, il calcio affonda nell’espiazione delle sue tante colpe. Ma andiamo per ordine. Alle 18 ti accomodi sul divano per goderti la finale delle finali, quel Sinner-Alcaraz destinato a divenire, siamo solo all’inizio, una serie che ci accompagnerà per chissà quanti anni ancora.

Match stellare, meglio a tennis non si può giocare, un flipper che alla fine ha premiato la solidità e la costanza del Rosso della Pusteria sui guizzi altalenanti del Murciano. I due stavano due Slam a testa, le Atp Finals rappresentavano la bella, sebbene il freddo calcolo del computer avesse già incoronato lo spagnolo. È stata la ciliegina su una stagione del tennis (ma non è finita, ora a Bologna, pur senza Sinner e Musetti, c’è il reperto di quello che fu la Davis da onorare e difendere) stupenda che ha offerto spettacolo ed emozioni in abbondanza con numeri record di partecipazione in tribuna e a casa davanti alla tivù.

Una stagione che ha visto anche la crescita del talento infinito di Lorenzo Musetti e del suo tennis romantico, e di altri ragazzi italiani, su tutti Flavio Cobolli, che scalano le classifiche. Segno di un movimento in grande salute: in una settimana l’Inalpi di Torino ha ospitato 230.000 persone per quella che si è rivelata soprattutto una grande festa del tennis. Il flipper Sinner-Alcaraz (era lui, quello vero in carne e ossa, e non Alvarez) è finito giusto in tempo per premere il ditino sul telecomando, cambiare canale e spostarsi su Italia-Norvegia a San Siro, ultima tappa delle qualificazioni al Mondiale del prossimo anno. Partita svuotata di significato ai fini dell’esito del girone (il vantaggio dei norvegesi nella differenza reti era abissale), ma pur sempre impegno di prestigio che avrebbe dovuto mostrare i progressi della cura Gattuso. E il primo tempo non poteva essere più incoraggiante: l’Italia pimpante e aggressiva mette in imbarazzo una Norvegia abulica: uno a zero, giusto, grazie a un gol del promettente Pio, il nome ci sta, Esposito. Intervallo: uno sguardo ai commenti sui social e ne spunta uno del maggior quotidiano sportivo italiano che ci suscita un certo sconcerto: «Dove è finita la Norvegia macchina da gol? Haaland e compagni non si vedono dalle parti di Donnarumma, l’Italia chiude il primo tempo avanti grazie a Pio Esposito. Per andare al Mondiale però servono altri 8 gol».

Non sappiamo se Haaland lo abbiano letto, anzi sicuramente no, ma i norvegesi escono indemoniati dagli spogliatoi, l’Italietta che s’era desta s’affloscia nelle sue paure e becca quattro pedate nel sedere. Tutti a casa, dietro alla lavagna sotto la pioggia battente tra i fischi. Una nottataccia, una delle tante che il calcio azzurro ci fa vivere in questi anni di magra. Ora, ma si sapeva, il biglietto per il Mondiale passa per gli spareggi che dovremo vincere se non vorremo restare a casa per la terza volta di fila. Leggiamo cose del tipo «Non ci può essere un Mondiale senza l’Italia»; «Non vogliamo nemmeno pensare che l’Italia resti fuori dai Mondiali per la terza volta di fila». E, invece, sarebbe bene essere consapevoli che per il suo valore attuale l’Italia ai Mondiali può benissimo non andarci, che un tempo i Mondiali li giocavamo per vincerli, mentre oggi sarebbe già qualcosa farli, che eravamo nel G8 del pallone e ora non siamo nemmeno nel G20, che per i nostri eroi pedatori fare un dribbling e saltare un uomo equivale a una scalata dell’Everest senza ossigeno. Potremmo andare avanti all’infinito e se non lo facciamo è solo per pudore. Il sistema è un malato cronico, ma non ancora abbastanza conscio di essere grave e di esserlo da tempo, e va avanti a pastigliette placebo.

E pensare che la nostra domenica era iniziata nelle nebbie del basso Po per la consegna di premio Fairplay Gianni Brera istituito dal Panathlon Gianni Brera-Università di Verona in collaborazione con i Comuni di San Zenone al Po e di Santa Cristina e Bissone: un onore far parte della giuria presieduta dall’ex arbitro Paolo Casarin. Roberto Tricella, con a fianco il suo compagno di squadra Domenico Volpati ha ritirato il premio in qualità di capitano del mirabolante Verona che vinse lo scudetto nel 1985 nella grandezza dei semplici; la cerimonia è stata preceduta dalla piéce teatrale «Il filosofo in panca» dedicata a Manlio Scopigno, «il filosofo» che in panchina guidò il Cagliari alla conquista dello scudetto del 1970, cui il premio è stato assegnato alla memoria. Protagonista dello spettacolo l’attore Alessandro Pilloni che ha realizzato la piéce sui testi di Giulio Giusti. Un recital emozionante e coinvolgente in un’onda di pathos per un calcio sano che non c’è più. Sul palco il bravissimo Pilloni recitava questa frase: «Allora le maglie erano fatte per essere indossate, oggi per essere vendute». Gelo lungo la schiena, basta questo. Meditate lorsignori mercanti del tempio del pallone, meditate. Intanto, scusateci se noi vi lasciamo soli e ci godiamo Sinner.