L'intervista
martedì 30 Settembre, 2025
Franco Bragagna, la voce Rai assente a Tokyo per le ferie obbligate: «La petizione per avermi lì? Mi ha fatto piacere, ma non vorrei sembrare patetico»
di Lorenzo Fabiano
Prossimo alla pensione nel 2026 dopo i Giochi di Milano-Cortina, per lui è stata persino lanciata una raccolta di firme per spingere Mamma Rai a cambiare idea
Settebello in tavola. Trent’anni fa a Göteborg ne arrivarono sei, ma Tokyo ci ha portato il meglio di sempre, perché sette medaglie a un Mondiale l’atletica italiana non le aveva mai prese. Un Mondiale orfano, però, della voce di Franco Bragagna, «The voice» dell’atletica leggera (il grande Frank ci perdoni l’impudenza dell’accostamento). Maledette ferie. Suo malgrado va detto, perché a casa il sessantaseienne telecronista padovano di nascita e bolzanino di adozione è rimasto proprio per smaltire le ferie accumulate in tanti anni di telecronache Rai. Prossimo alla pensione nel 2026 dopo i Giochi di Milano-Cortina, per lui è stata persino lanciata una raccolta di firme per spingere Mamma Rai a cambiare idea e a permettergli così di commentare i Mondiali di Tokyo. Tutto inutile, irremovibili ai piani alti di Viale Mazzini a Roma: «Mi dicono che le firme sono state tante, ma la petizione non è andata a buon fine. La cosa mi ha creato un certo imbarazzo, perché il timore è quello di apparire un po’ patetico, ma non posso certo negare che mi abbia fatto piacere. Significa che in questi trent’anni abbondanti la gente mi ha seguito», racconta lui.
Bragagna, lei ha persino un fan club.
«Il fondatore è un ingegnere di Torino, Simone Chiavola, un marciatore che quando era juniores era il numero tre in Italia. Mi ha detto di aver cominciato a fare atletica a causa mia. Quando trovo persone che mi dicono di aver abbracciato l’atletica perché indotte dalle mie telecronache, mi fa un enorme piacere. Ammesso che sia una specie di virus, sono contento di essere un untore di questo tipo (ride, ndr)».
Da Tokyo 2021 a Tokyo 2025: «L’atletica italiana ha due nuovi leader, Mattia Furlani e Nadia Battocletti», parole del direttore tecnico azzurro Antonio La Torre; questo Mondiale segna l’ora del tramonto per due eroi dei Giochi olimpici di quattro anni fa, Jacobs e Tamberi?
«Non ne sono convinto. Marcel Jacobs ha avuto una carriera costellata di problemi e infortuni, il meglio lo ha già dato, eppure solo un anno fa ha corso in 9.85. A Tokyo, pur con tutti i problemi che ci son stati, in staffetta non l’ho affatto visto correre male. Gimbo Tamberi non si è presentato in condizioni ideali, aveva anche la testa altrove per la nascita della figlia. Io credo che dal borsellino qualcosa possa ancora pescare. Detto questo, è chiaro che Mattia Furlani e Nadia Battocletti siano le punte del futuro».
Su Filippo Tortu, sipario?
«Temo di sì. In staffetta non è stato nemmeno schierato: ufficialmente per un risentimento muscolare, ma propendo di più per scelta tecnica. Il meglio di Tortu lo abbiamo visto quando aveva vent’anni e allora lasciava presagire a una crescita importante della sua carriera. Purtroppo, questa crescita non c’è stata».
Peccato anche per il pasticcio della staffetta 4×100.
«Dobbiamo considerare che gli ultimi due frazionisti, Lorenzo Patta e Matteo Melluzzo, venivano da infortuni. Patta è andato molto piano. Fausto Desalu non è adatto alle partenze, non può essere lui il primo frazionista, ma semmai il terzo in curva: magari non avrebbe ripetuto l’exploit di quattro anni fa a Tokyo, ma la terza frazione è la sua».
Sette medaglie a un Mondiale non le avevamo mai prese. «Non invidiamo Sinner e il tennis», il presidente della Fidal Stefano Mei è euforico.
«Io preferisco i cinque ori di quattro anni fa a Tokyo. Il presidente dirà che è merito suo, ma già nelle telecronache del 2016 e 2017 dicevo che eravamo sulla strada giusta per avere uno squadrone negli anni a venire. Era un’atletica azzurra che prometteva grandi cose, e puntualmente abbiamo oggi la squadra più forte che l’Italia abbia mai avuto. Il livello che ha raggiunto lo dobbiamo a una generazione che è l’integrazione tra figli di immigrati, atleti e atlete di sangue misto e atleti e atlete indigene. Mattia Furlani e Nadia Battocletti sono di sangue misto e sono orgogliosi di esserlo».
Veniamo a Nadia Battocletti: in questi due anni è stata protagonista di un’ascesa irrefrenabile, che ne pensa?
«È cresciuta in maniera straordinaria. Il suo organismo è supportato da una testa meravigliosa, il prossimo anno si laureerà presumibilmente col massimo dei voti in Ingegneria Edile e Architettura, mica scienze delle merendine (altra risata, ndr). È una ragazza che si impegna su più fronti, una ragazza con grandi qualità atletiche e una testa fantastica che le permette di fare le scelte giuste nella vita e in pista. Spero anche che Larissa Iapichino possa seguire lo stesso percorso di Nadia».
Nadia ha margine di ulteriore crescita, secondo lei?
«Assolutamente sì. Come dice suo padre, in questi anni non ha svolto un volume di lavoro con un chilometraggio importante per crescere; ora, che sta facendo un vero lavoro da mezzofondista di livello mondiale, ha la possibilità di accorciare la distanza che la separa da quelle poche che riescono a batterla».
A differenza di tanti altri casi nello sport, il sodalizio padre-figlia funziona.
«Se con Filippo Tortu non ha funzionato e con Andrew Howe ha funzionato a metà, con Nadia funziona benissimo. Il bravo allenatore deve saper frenare quando ci si trova in situazioni di disagio. Devi avere la sensibilità di capire che tipo di lavoro impostare col tuo atleta; c’è chi è così brillante da aver bisogno di meno lavoro specifico e più lavoro di qualità. Alla base deve esservi una forte intesa tra atleta e allenatore, perché a volte l’infortunio arriva proprio per colpa dell’allenamento».
Yeman Crippa: il passaggio alla maratona si sta rivelando parecchio complicato.
«È una scelta che ancora non paga i dividendi. Yeman, un grande atleta, e Massimo Pegoretti, un grande allenatore nonché un gran persona, devono mettersi lì a fare un esame di coscienza per capire cosa non è andato e cosa fare. La maratona di Tokyo era fattibile, anche da vittoria come ha dimostrato il bronzo di Ilias Aouani, ragazzo di un’intelligenza spaventosa, due lauree in Ingegneria negli Stati Uniti. Yeman deve solo mangiarsi le mani, perché quella maratona poteva vincerla o quantomeno andare a medaglia. Adesso è a un bivio: deve decidere se proseguire nella maratona o tornare a gareggiare in pista. A Tokyo c’era margine, mancavano un paio di ugandesi forti passati alla maratona, e lo dimostra il suo amico francese Jimmy Gressier, che Yeman ha battuto nei cross, oro nei 10.000 e bronzo nei 5.000».
Quattordici record in cinque anni, un ritocchino alla volta: Armand Duplantis è sempre più la stella nel firmamento dell’atletica mondiale.
«Hors categorie, fuori categoria. Svedese grazie alla mamma e quindi anomalo, visto che è cresciuto in America. La cittadinanza svedese gli permette di non dover fare i Trials americani, che stravincerebbe comunque. Ha tutto: abilità, coordinazione, acrobazia, velocità, forza, ed è una persona favolosa. Il secondo al mondo, il greco Emmanouil Karalís peraltro in grande crescita, sta venti centimetri più sotto. Margine non colmabile, a meno di una giornata storta di Armand».
Le altre stelle del Mondiale?
«Melissa Jefferson che ha vinto 100 e 200 metri, Noah Lyles oro nei 200 ma sconfitto nei 100 metri dal giamaicano Oblique Seville. E poi Maria Pèrez, marciatrice spagnola, oro e argento olimpico a Parigi 2024, campionessa mondiale nella 20 km e 35 km a Budapest 2023 e a Tokyo 2025. È la più forte di tutte».
Torniamo a lei, Bragagna: appuntamento per l’ultima telecronaca della carriera ai Giochi di Milano-Cortina?
«Ne sto parlando con la Rai. Vediamo, dai. Io ci terrei molto».
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