L'esperto
giovedì 15 Febbraio, 2024
di Simone Casciano
I crediti di carbonio devono essere l’ultimo miglio della strada verso la riduzione delle emissioni. Quello che un’azienda compie solo dopo aver messo in campo tutte le azioni possibile per ridurre la propria impronta carbonica. Passi da fare per quella CO2 che proprio non si riesce ad evitare di emettere. Affacciarsi al mercato, crescente, dei crediti di carbonio può essere però disorientante. «Per trovare la strada giusta è meglio scegliere progetti che oltre ad abbattere le emissioni portano benessere alle comunità in cui vengono realizzati» suggerisce Stefano Caserini, docente presso l’Università di Parma, autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative, fra cui sei libri, l’ultimo «Sex and the climate. Quello che nessuno vi ha ancora spiegato sui cambiamenti climatici» e fondatore del blog Climalteranti.it. Caserini interverrà oggi all’evento del giovedì di Muse Agorà alle 17.45. L’appuntamento, dal titolo «Carbon neutral al 2030, quali percorsi e strumenti?» è organizzato dalla Rete Climatica Trentina. Oltre al professore Caserini, interverranno anche Federica Dossi, tirocinante presso il New Climate Institute, che ha portato avanti degli studi sul valore economico del sequestro temporaneo di carbonio, e Matilde Fumagalli, attivista del Gruppo studio di Ecologia politica e laureata in Geografia, che ha indagato gli impatti di un progetto di compensazione del carbonio attivo in Kenya. Obiettivo fare il punto sui crediti di carbonio tra opportunità e inganni del settore
Professor Caserini cos’è un credito di carbonio?
«È una quantità di denaro che viene investita in cambio dell’impegno a ridurre, di una data quantità, le emissioni; in particolare quelle da Co2, il maggiore gas climalterante. Quando si vuole realizzare un progetto di riduzione delle emissioni spesso mancano le risorse, la strada allora può essere quella di realizzarlo raccogliendo i fondi da un investitore, spesso le aziende. Così il finanziatore può poi dimostrare che ha ridotto le sue emissioni o quantomeno non le ha aumentate».
Che mercato è quello dei crediti di carbonio?
Ci sono diversi prodotti. Il più diffuso in Europa al momento è il meccanismo del «emission trading» (scambio di emissioni, ndr) e riguarda i grandi impianti industriali. Questi sono soggetti ad una tassazione sulla Co2 emessa e non compensata, attorno ai 60 euro a tonnellata, si tratta di uno dei caposaldi della politica climatica europea. Esistono quindi diversi tipi di prodotti, o crediti, basati su progetti di riduzione delle emissioni, definiti negli accordi di Kyoto. È importante che questi progetti dimostrino di aver generato veramente una riduzione della Co2 che prima non c’era. Ci sono poi i crediti forestali, anche se hanno avuto qualche problema. Con la foresta si immagazzina la Co2 nel legno, vero, ma è uno stoccaggio che non è definitivo, visto che l’albero in un domani può essere tagliato. Bisogna sapere che i crediti forestali possono essere una piccola parte del contributo, ma la loro importanza, o il loro impatto, non devono essere esagerati».
Che problema c’è stato con i crediti forestali?
«Un’inchiesta del Guardian, ma non solo, ha mostrato progetti che non erano addizionali. Cioè non si verificava la riduzione che ci si aspettava, per malafede, ma anche per calcoli sbagliati nelle aspettative di stoccaggio. Dopo quell’inchiesta ci si è resi conto che bisognava procedere con più attenzione».
Ci sono dei rischi quindi sul mercato dei crediti di carbonio?
«Certo ci sono stati casi in cui si prendevano soldi per piantare 10mila piante, se ne mettevano a terra mille e ne sopravvivevano 200. Oppure piccoli impianti di fotovoltaico o idroelettrico mai entrati in funzione al 100%. In altri casi si sono ricalcolati come crediti di carbonio impianti che già erano stati realizzati. In generale bisogna stare attenti ai furbi, agli approfittatori, a quelli che chiamo i creatori di “aria calda”».
Ci sono però anche tante storie virtuose?
«Ma certo ce ne sono tantissime. Penso ai progetti, finanziati con i crediti di carbonio, che hanno permesso di installare pannelli fotovoltaici nelle comunità rurali dell’India. In questo modo si è evitato che queste popolazioni dovessero utilizzare gasolio o tagliare alberi per avere la legna. In questo modo non solo hai evitato le emissioni derivanti dall’uso delle stufe, ma hai anche reso una comunità indipendente da un punto di vista energetico. Questo è il modello che si dovrebbe preferire».
In che senso?
«Io ho sempre dato il consiglio di scegliere quei crediti basati su progetti che sviluppano energie rinnovabili nei paesi in via di sviluppo. L’obiettivo così diventa non solo quello di supportare la decarbonizzazione, ma anche di aiutare le comunità locali. Così si raddoppia il valore dell’investimento e si investe davvero nella sostenibilità»