L'editoriale
lunedì 16 Giugno, 2025
Un mondo senza leader
di Simone Casalini
Guerre e conflitti si estendono, il linguaggio dei capi politici sempre più cinico e violento. Così l'appello di papa Francesco a disarmare le parole è caduto nel vuoto

Il cantautorato del Novecento ha messo spesso in parole il tema della guerra. È una generazione, quella dei Cinquanta e Sessanta, che univa la dimensione intellettuale e di impegno con quella di biografie che, cresciute negli echi delle due guerre mondiali, avevano il bisogno di rielaborare. Di riportare in superficie il dolore dei conflitti e le vittime, attraverso le loro storie. La guerra appariva così nel suo nitore porpora, nelle reticenze di Piero che voleva vedere “lungo le sponde del mio torrente” scendere “i lucci argentati, non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente” (de Andrè), nelle prolusioni di un generale pronto al ritorno a casa che “la guerra è finita, il nemico è scappato, è vinto, battuto. Dietro la collina non c’è più nessuno. Solo aghi di pino e silenzio e funghi, buoni da mangiare, buoni da seccare. Da farci il sugo quando viene Natale” (De Gregori), nello spaesamento di un giovane americano inviato in Vietnam – l’evento che ha segnato psicologicamente gli Usa più del conflitto mondiale – che lamentava: “Mi sono cacciato in un piccolo pasticcio nella mia città. Così mi misero un fucile tra le mani. Mi inviarono in una terra straniera per andare e uccidere l’uomo giallo” (Springsteen). Brassens, nella canzone “I due zii”, raccontava la storia di zio Martino e zio Gastone, che hanno combattuto su fronti opposti, che sono entrambi morti. “Ora, sono sicuro, cari zietti sfortunati, tu l’amico dei Tommi’s, tu l’amico dei Crucchi, se foste ancora vivi, se foste qui, sareste voi a cantare questa canzone. Cantereste, brindando insieme alla vostra salute, che è da pazzi perdere la vita per delle idee, delle idee così, che vengono e che fanno tre piccoli giri, tre piccoli morti, e poi se ne vanno”.
Antimilitarismo, pacifismo, nuova cultura democratica, disobbedienza si intrecciavano nell’idea di un mondo che – grazie anche al benessere, al welfare, alla diffusione dell’istruzione, alla memoria – avrebbe archiviato la guerra e la forza come misura della relazione. Se all’arte musicale sostituissimo quella cinematografica otterremmo, forse, una propensione a setacciare i diagrammi della violenza ancora più ossessiva. L’incubo Vietnam, da solo, ha occupato 40 anni di produzioni e di capolavori (il monologo di Marlon Brando/generale Kurtz in “Apocalypse Now” è, forse, il momento più alto), la Seconda guerra mondiale è stata rivisitata da molteplici prospettive, l’Olocausto è una traccia che persiste.
Oggi nessuno parla di guerra, è scomparsa dalla nostra visuale, è lontana. E comunque le espressioni artistiche si sono fatte intime, individuali, commerciali. Il contenuto è subordinato al mercato, la complessità subordinata alla superficialità, le parole subordinate ai reel, all’immagine fine a se stessa, all’estetica del consumo. Forse è anche per questo che sull’orlo di una nuova guerra mondiale, ormai neppure più a pezzetti, ci occupiamo di altro. In molti si sono richiamati all’esortazione di papa Francesco quando, scrivendo al Corriere della Sera, affermò: “Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità”. Un concetto vero se la cultura, nella sua vasta applicazione, ci sostenesse. Ma non è così. Per la prima volta da decenni assistiamo ad una regressione cognitiva della società, al suo intorbidimento, a pulsioni primigenie spacciate per sentimento popolare, anche se questo porta in un vicolo cieco. Quindi a che serve la politica?
Le parole non sono disarmate. Il presidente americano Trump, infrangendo il tabù di un’alleanza decennale nel nome dell’Occidente, ha sostenuto a più riprese che “l’Unione europea è stata costituita per fregare gli Stati Uniti”, “l’Europa è un’atrocità”, “gli europei sono solo degli scrocconi”. “Parassita e patetica” è l’analisi kantiana del vicepresidente Vance, passato in meno di dieci anni dal “Never Trump” al “Trump forever”. Quindi se il principale alleato è liquidato così, immaginiamoci i nemici di oggi e di domani. La forma è sostanza in diplomazia e in politica estera, il linguaggio non è mai usato incautamente. E le giustificazioni di stile (“Trump spara a zero per poi negoziare”) non allestiscono nessun alibi perché una parola violenta lascia una ferita a prescindere da quali siano obiettivi e desideri reali. Il segretario americano alla Difesa Hegseth (un distillato tra un marine e un anchorman televisivo), tra le tante affermazioni armate, ha dichiarato l’altro giorno che gli Stati Uniti hanno già preparato i piani per invadere Groenlandia e Panama. “Con la forza, se necessario”, ovviamente. Avanti così, senza pudore.
L’attacco di Israele all’Iran, il passo finale verso il conflitto globale, è stato salutato da Trump come un’azione di calcio ben congegnata. “Un attacco eccellente, ce ne saranno altri più brutali”. Netanyahu, che ormai tiene in ostaggio il mondo per il suo desiderio di ridisegnare il Medio Oriente, nel tentativo di rassicurare le inesistenti opinioni pubbliche ha dichiarato che “non si tratta di una semplice operazione militare. Ma è guerra”. E l’Iran di rimando ha garantito che “vi apriremo le porte dell’inferno”. Dopo Hamas e Hezbollah, Israele si rivolge al regime (in crisi) degli ayatollah con il desiderio, neppure troppo celato, di abbattere l’attuale assetto politico, rischiando di ottenere l’effetto contrario.
In questo mondo scalcagnato, di leader macchiette, sottoprodotti culturali del consumo e dei nazionalismi, il linguaggio è completamente deragliato e, in fin dei conti, si è allineato a quello del talk show, dei politici e dei giornalisti che si autoalimentano per una grande causa comune: quella del proprio sé.
L’Italia e i sovranisti europei seguono Trump perché è il loro amuleto contro un’Europa grande player internazionale, l’uomo che sdogana i nostri desideri di potenza e che archivierà la democrazia con le sue picconate a cui ci siamo assuefatti. Perché i parlamenti non servono, e in effetti chi li vota più? Non interessano al popolo.
A Trento sono rimaste le tracce, come monito di sangue inascoltato, di quanto sia importante un linguaggio equilibrato, che conosce dei confini e che costruisce dei destini comuni. Nella Galleria che conduce a piazza Battisti “la donna del fascio” di Gino Pancheri veglia sopra la frase mussoliniana: “Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero, lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi”. Oggi qualcuno potrebbe scambiarlo per un auspicio.
l'editoriale
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