Terra Madre
venerdì 5 Dicembre, 2025
Slow Wine 2026, il Trentino raccontato dal bicchiere: «Il vino è terra, comunità, scelte»
di Tommaso Martini
Nella presentazione a Rovereto, venti cantine e un pubblico numeroso per la nuova edizione della guida: dalla sostenibilità delle bottiglie all’identità dei vitigni, passando per i giovani vignaioli e il Manifesto del vino buono, pulito e giusto. Un anno di visite in sessanta aziende per fotografare — e orientare — il futuro del comparto trentino
Nello spazio MoM Officina di Rovereto è stata presentata la Guida Slow Wine 2026. Venti cantine trentine hanno partecipato a una giornata di degustazione e dialogo con il pubblico, costellata da interventi mirati ad approfondire la situazione del comparto vitivinicolo. Una guida espressione dell’approccio Slow Food al mondo del vino, giunta alla quindicesima edizione. Quella del 2026 è la prima edizione curata, per la provincia di Trento, da Fabrizio Cucchiaro — nella vita direttore generale di una cooperativa sociale — che coordina una redazione di otto collaboratori. Nel corso dell’anno il gruppo ha visitato oltre sessanta aziende trentine.
Slow Food si occupa di cultura e divulgazione del cibo buono, pulito e giusto, con particolare attenzione ai temi dell’educazione al gusto, della custodia della biodiversità e del rapporto tra sistema alimentare e sostenibilità. Come viene declinata questa visione in una guida dedicata al vino?
«Innanzitutto attraverso il metodo di lavoro. Incontriamo i produttori nelle loro aziende, visitiamo i vigneti, osserviamo come lavorano. Non ci limitiamo alla degustazione: vogliamo capire le ragioni per cui un vignaiolo fa un determinato vino, l’idea e l’anima che lo guidano. È questo che cerchiamo di restituire nella guida, raccontando territori, persone, scelte agronomiche e visioni. L’obiettivo non è solo fotografare lo stato del settore in un territorio, ma anche orientarlo, stimolare riflessioni, esercitare una forma di advocacy coerente con l’azione di Slow Food. Negli anni passati abbiamo escluso dalla guida tutte le aziende che utilizzano il diserbo chimico. Nell’edizione 2026 abbiamo invece voluto portare l’attenzione sul peso delle bottiglie. Il vetro incide infatti dal 30 al 70 per cento sull’impronta carbonica di un vino. Per questo, accanto a ogni etichetta recensita riportiamo il peso della bottiglia: un modo semplice ma efficace per aumentare la consapevolezza, non solo nei consumatori ma anche nei produttori stessi».
Slow Wine fa riferimento a un Manifesto del vino buono, pulito e giusto. Tra elementi tecnici e valoriali, qual è la sua funzione?
«Il Manifesto indica, in dieci punti, una direzione: definisce obiettivi e criteri verso cui le aziende che vogliono operare in modo realmente sostenibile dovrebbero orientarsi. Non è un insieme di regole rigide, ma un percorso da costruire insieme ai produttori, un riferimento condiviso per far evolvere il settore. Tra gli aspetti più significativi c’è il principio secondo cui le cantine devono coltivare almeno il 70 per cento delle uve che trasformano. È un punto che riafferma la natura agricola del vino: il vino non è soltanto una trasformazione enologica, è un prodotto della terra. Per questo molte delle aziende presenti in guida aderiscono ai Vignaioli indipendenti, una realtà con la quale condividiamo molti valori, come ha ricordato anche la presidente Clementina Balter durante la presentazione di sabato. Il Manifesto richiama inoltre l’importanza della biodiversità. Se il vino nasce in vigna, è l’ecosistema in cui la vite cresce a conferirgli identità: un ambiente agricolo ricco di specie e di equilibri genera un’uva più complessa e un vino più territoriale. Quando la biodiversità si perde, ciò che si rischia è un vino omologato, asettico, privo di radici. Infine, il Manifesto sottolinea il ruolo delle cantine all’interno della comunità agricola. Collaborare con gli altri produttori, sostenere il sistema rurale del proprio territorio, contribuire alla sua vitalità economica e culturale: è un impegno che va oltre la singola azienda e riguarda il futuro del paesaggio agricolo in cui operiamo».
Il dibattito intorno al settore parla di crisi e di cantine piene, di dazi e nuovi mercati, della disaffezione dei giovani? L’osservatorio di Slow Wine quali opinioni si è fatto su questa fase?
«Un dato si è rilevato nel corso della presentazione della guida: erano numerosi i produttori giovani, alcuni testimoni di un passaggio generazionale in corso, altri pronti ad affrontare nuove avventure imprenditoriali. Un’immagine che ci restituisce la convinzione che il vino può avere ancora una forte attrattiva: forse sta a loro individuare una nuova chiave di lettura per coinvolgere i giovani. Esistono poi dei vini che a nostro avviso possono vincere le sfide del mercato. Pensiamo, ad esempio, alla Schiava: un vino dal potenziale enorme, con la leggerezza di un bianco e la complessità di un rosso, agile, fruttato, estremamente contemporaneo. Una provocazione: la Schiava ha la stessa bevibilità di uno spritz ma ti riporta a un territorio, una cultura, un’artigianalità. Un ragionamento simile può essere fatto per il Marzemino. Parliamo di vini che uniscono identità territoriale, facilità di consumo e un ottimo rapporto qualità-prezzo. In un contesto in cui i redditi delle famiglie stagnano, il valore di vini accessibili e sostenibili nei costi di produzione diventa un fattore competitivo importante».
Rapporto qualità-prezzo, il giusto coinvolgimento delle nuove generazioni, ma anche tanta cultura e consapevolezza alla base del futuro del settore. E per perseguire questa strada Slow Wine non si limita alla guida e al manifesto.
«Proprio questa settimana abbiamo dato il via a una serie di incontri di approfondimento con cui vogliamo promuovere la cultura del vino, con uno sguardo al di fuori del nostro ambito territoriale. Sono appuntamenti aperti a curiosi e appassionati, ma pensati anche per i vignaioli trentini, con l’idea di favorire un confronto tra esperienze diverse. Al primo appuntamento abbiamo ospitato il vignaiolo marchigiano Corrado Dottori. La sua storia è esemplare: un percorso di ritorno da Milano a Cupramontana, terra di origine dei genitori. Qui avviene l’incontro-scontro con il Verdicchio, la scelta di un’agricoltura attenta, l’ideazione di nuove modalità che sono poi diventate un modello che ha dato un senso all’identità vitivinicola di un intero territorio. Nel suo libro “Non è il vino dell’enologo”, Corrado esprime un’idea di produzione che non mira al vino perfetto. Eliminare ogni nota fuori registro rischia infatti di omologare il vino, privandolo della sua identità. I suoi vini si pongono invece come racconto del territorio ed espressione del pensiero di chi li produce».
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