L'intervista

giovedì 29 Maggio, 2025

Scuola, la pedagogista Dulbecco: «Il merito rischia di diventare narrazione tossica. Si riduca il ritmo ossessivo»

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L'esperta: «La scuola, specie nei licei più “prestigiosi”, può diventare un palcoscenico dove il valore delle persone si misura in decimi. Questo alimenta una pedagogia del controllo: si insegna a performare, non a pensare»

Ci sono studenti che la notte non dormono. Che vivono il ritorno a scuola come un peso, e non come un’occasione di crescita. Che associano i voti non a un’indicazione di percorso, ma a un giudizio sul proprio valore. In alcune scuole, in particolare nei licei a tradizione umanistica come il classico, la pressione può farsi insostenibile: si parla di eccellenza, di merito, di futuro. Ma a che prezzo? In un sistema educativo ancora saldamente ancorato alla logica della prestazione, della valutazione e della competizione, il disagio psicologico tra i più giovani cresce. E cresce anche l’urgenza di cambiare prospettiva, di ripensare il senso della scuola e del voto, di riscoprire la formazione come spazio di ricerca e non solo come luogo di selezione. Per approfondire questi temi, abbiamo dialogato con Alessia Dulbecco, pedagogista, counselor e formatrice, impegnata da anni nell’ambito della crescita personale e dell’educazione alla parità di genere. Con lei abbiamo parlato di stress scolastico, di aspettative familiari e sociali, e della necessità di ripensare radicalmente il nostro modo di educare.

Alessia Dulbecco, molti e molte studenti raccontano di vivere la scuola come un’arena dove si viene costantemente giudicati. In che modo la centralità del voto, soprattutto in scuole come il liceo classico, può influire sulla salute mentale di ragazze e ragazzi?
«La scuola, specie nei licei più “prestigiosi”, può diventare un palcoscenico dove il valore delle persone si misura in decimi. Questo alimenta una pedagogia del controllo: si insegna a performare, non a pensare. Il voto, da strumento, diventa identità. In particolare per le ragazze, spesso socializzate all’obbedienza e al compiacimento, la pressione a essere “brave” può trasformarsi in ansia, disturbi alimentari, autosvalutazione. Se la scuola non riconosce le soggettività e non coltiva spazi di ascolto autentico, finisce per produrre disagio, più che apprendimento e educazione».

 

La retorica del merito è spesso utilizzata per giustificare una cultura della competizione. Ma esiste un confine tra incentivo allo studio e stress cronico? Dove si colloca, secondo lei, questo limite oggi?
«Il merito, se slegato da un’analisi delle condizioni di partenza, diventa una narrazione tossica. Promuove l’idea che il successo sia solo individuale, ignorando i privilegi e le disuguaglianze. Il confine tra stimolo e stress viene superato quando l’errore non è più considerato parte dell’apprendimento ma colpa, vergogna, fallimento. Oggi, quel confine è ampiamente oltrepassato. Serve ripensare il senso della valutazione, e chiedersi: stiamo formando persone consapevoli, o semplicemente selezionando i più adattabili alla pressione? Il liceo classico viene ancora percepito come la «scuola della futura classe dirigente».

Quanto pesa questa aspettativa sull’identità e sull’autostima degli e delle studenti che lo frequentano?
«L’idea che il liceo classico prepari l’élite culturale del Paese impone un modello normativo rigido, soprattutto sotto il profilo di classe. Chi non rientra in questo canone rischia di sentirsi inadeguato o invisibile. Questa aspettativa schiaccia le soggettività e alimenta una corsa alla prestazione, dove si impara a sopravvivere, più che a esprimersi. Personalmente, credo che la scuola dovrebbe interrogarsi su chi decide cosa valga e chi sia “degno” di far parte della futura classe dirigente, oltre che sui valori di leadership a cui educhiamo queste persone».

Che ruolo hanno genitori, insegnanti e istituzioni nel rafforzare – o contrastare – una visione performativa dell’adolescenza, in cui il valore personale coincide con i risultati scolastici?
«Tutte e tutti partecipano alla costruzione di una cultura performativa nella misura in cui la società ci affida questo mandato. I genitori, spesso in buona fede, trasmettono l’ansia sociale del “non restare indietro”. Gli insegnanti, talvolta schiacciati da burocrazia e frustrazione, rischiano di riprodurre pratiche punitive. Le istituzioni restano ancorate a un modello ottocentesco, così poco adatto ad accogliere il disagio della contemporaneità. Il malessere che esprimono le persone giovani è conseguenza di una crisi – sociale, climatica, politica – che travalica i confini nazionali: dobbiamo farci carico della responsabilità di vederla e, possibilmente, gestirla».

 

Se dovesse immaginare una scuola diversa, capace di formare persone oltre che «profili eccellenti», da dove partirebbe per ridurre lo stress e restituire senso al percorso educativo?
«Partirei dal tempo e dalla relazione. Una scuola che si prenda cura deve ridurre il ritmo ossessivo, aprire spazi di dialogo, introdurre una valutazione formativa e non punitiva. Va decostruita la pedagogia della paura e del premio, per fare posto a una didattica capace di rispondere a sfide complesse, che necessitano di uno sguardo intersezionale per essere comprese. Solo così potremo educare persone intere, non solo “profili eccellenti”».