l'intervista
venerdì 30 Maggio, 2025
Riccarda Zezza e il valore (in azienda) della maternità: «La cura è competenza, come un master. Così si crea leadership»
di Marika Damaggio
Autrice e coniatrice del neologismo «transilienza» interverrà oggi a «Noi contiamo!», il convegno organizzato dall’associazione Zona Franca e dedicato alle strategie di promozione e partecipazione delle donne al mercato del lavoro (alle 15, sala di rappresentanza di Palazzo Geremia)

Dal 2022 il dizionario Treccani ha inserito un sostantivo che ha coniato lei: transilienza. Letteralmente: «La capacità di elaborare e sviluppare risorse e competenze trasferibili tra professioni, funzioni e ruoli diversi». Come la maternità, vissuta dai più come un impiccio malgrado si tratti della massima esperienza di cura che è inevitabilmente palestra di (nuove) competenze che, se trasferite in azienda, diventano volano di crescita collettiva. Una sorta di formazione manageriale, un’abilità di leadership e relazionale dall’alto potenziale. Riccarda Zezza, autrice del libro «Cura» e co-autrice del libro «MAAM – La maternità è un master» da più di dieci anni cerca così di sovvertire i cliché. Fondatrice di «Lifeed», il primo e unico programma di formazione aumentata che trasforma le transizioni di vita in un’opportunità di crescita personale e professionale, è stata premiata da «Fortune» come «Most Influent and Innovative Woman Fortune 2018» in Italia. Un riconoscimento nobile a un’intuizione dirompente: le esperienze di vita e le attività di cura – come la genitorialità, l’accudimento di una persona anziana, l’attraversamento di una crisi – per Zezza sono una palestra di formazione di competenze soft. Il nodo della faccenda è capirlo, riconoscerlo, valorizzarlo. Ma senza attendere la reazione del mercato, meglio agire in anticipo il cambiamento a partire da noi stessi, spiega l’autrice che oggi sarà ospite di «Noi contiamo!», il convegno organizzato dall’associazione Zona Franca e dedicato alle strategie di promozione e partecipazione delle donne al mercato del lavoro (alle 15, sala di rappresentanza di Palazzo Geremia).
Partiamo dal principio: il lavoro di cura per quanto sia una forma di welfare non istituzionalizzata e non riconosciuta è il motore del Paese. Tuttavia, non ne viene percepita la centralità anche per l’economia. Lei ha però spostato l’angolatura e il lessico: cura è anche competenza. Ecco: perché e in quale modo la maternità vale come master?
«Partiamo con il dire che lavoro di cura è una locuzione che mi fa sorridere. La cura è un istinto fondamentale che porta alla sopravvivenza della nostra specie. Non so quando sia diventato un dovere o un lavoro. Oggi parliamo di lavoro di cura riconosciuto nella migliore delle ipotesi, incidente di percorso nella peggiore. È dunque un elemento periferico quando in realtà è alla base di ogni cosa. Davanti a questo paradosso, ci dobbiamo giustificare per la presenza della cura nella nostra vita. Per fare un esempio concreto che si manifesta nelle parole: chi va in maternità va in congedo, in spagnolo si dice addirittura “caduta”. Quando una donna diventa madre nasce il problema, si pensa che così ci porta via qualcosa. Ma quando è successo a me ho detto: è un periodo di assenza, torno con maggiore competenza. Un po’ quello che accade quando un dipendente si assenta per frequentare un master che, giustamente, viene colto come momento di formazione. Nel caso della maternità viceversa viene ignorata la funzione formativa, l’esperienza di cambiamento e di vita che trasforma le competenze».
Ecco: quale bagaglio aggiunge nelle competenze la maternità?
«Prima delle competenze c’è il tema di chi siamo, ossia ilo terreno su cui ci muoviamo. Le ricerche in ambito psicologico parlano del sé preferito e una persona rende bene e ha alto rendimento professionale quando può esperire il sé preferito sul lavoro. La conoscenza di sé è dunque il primo passo per comporsi e aggiungere risorse e farle circolare. Quindi basta con i sensi di colpa e non sentirsi abbastanza, di qua e di là. Ciò premesso, è possibile far circolare le energie, dunque le competenze che si manifestano soprattutto nelle soft skill. Che sono innanzitutto intelligenza emotiva e leadership che viene contaminata dalla cura come modello generativo e inter-generativo, cambiando il rapporto con il potere che diventa responsabilità. Le competenze relazionali e organizzative aumentano così il livello dell’azienda».
Ma come reagisce il mondo del lavoro quando si propone la maternità come competenza, anziché come pausa o limite?
«Individualmente le persone sono pronte. Abbiamo lavorato con 70mila persone in questi dieci anni ed emerge la volontà di cambiare, affinando la capacità di elaborare e sviluppare risorse e competenze trasferibili tra professioni, funzioni e ruoli diversi. L’abbiamo chiamata transilienza, un neologismo registrato anche dalla Treccani nel 2022. Si tratta di una meta-competenza che permette alle competenze e alle energie di fluire da una parte all’altra della vita delle persone. Le organizzazioni in parte sono attratte da questa soluzione radicale, in parte sono spaventate».
Claudia Goldin, Nobel all’economia, ha teorizzato il cosiddetto lavoro avido, ossia un modello organizzativo ancorato alla quantità che penalizza le donne. Ecco: i processi sino a ora esperiti condizionano la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e sono forse resistenti a percepire la cura come competenza di leadership?
«La mia azienda ormai ha dieci anni e, oggi, credo che non sia giusto chiedere al mercato di essere l’attore che agisce questa innovazione sociale. Se le persone arrivano con una nuova prospettiva e nuovi strumenti, con maggiore spinta, allora sì che si può generare innovazione. Abbiamo una grande opportunità nel creare una massa critica di rottura, ma corriamo il rischio di non coglierla. Anche il Covid era l’occasione per ripensare a dei modelli consolidati, ma così non è stato. Il tempo per cambiare è poco e la resistenza al cambiamento si è fatta più aggressiva. Ecco: se il senso di urgenza appartiene a più persone riusciremo a incidere maggiormente».
Ma se il cambiamento parte da noi, c’è un primo esercizio da appuntarsi?
«C’è qualcosa che funziona con me: conoscere me stessa senza paura, fidarmi di chi sono e ricordarmi chi sono. Anche quando siamo affaticati ricordiamoci che tutto è fonte di energia che poi si mette in circolo».
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