L'intervista

sabato 28 Giugno, 2025

Pergine, Iacozzilli porta l’Alzheimer sul palco. «Quando la malattia arriva all’interno di una famiglia, va in pezzi. Il punto è trasformare il dolore in bellezza»

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Con il «Il grande vuoto» parte l'edizione 2025 di Pergine Festival. «La volontà è stata quella di portare a teatro un tema di cui si parla ancora troppo poco»

La storia di una famiglia e del suo disgregarsi, di una malattia neurodegenerativa e della memoria che scema. I dubbi che sorgono, i tentativi di tornare indietro come quelli di restare nel presente, attraverso il gioco teatrale, un monologo da «Re Lear» e la costruzione di un mondo nuovo. Con «Il grande vuoto» – tra i primi spettacoli del Pergine Festival, questa sera alle 20.45 al Teatro Comunale – Fabiana Iacozzilli, affiancata alla drammaturgia da Linda Dalisi, rende una storia delicata ma altrettanto profonda, che porta il pubblico tra le strette maglie dei rapporti famigliari, depositando domande alle quali non esiste risposta univoca. La pièce si inserisce come terza e ultima tappa della «Trilogia del vento», con cui Iacozzilli – in qualità di regista e drammaturga – ha esplorato le grandi fasi della vita come momenti di trasformazione e vedrà in scena Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e Mona Abokhatwa.
Iacozzilli, “Il grande vuoto” porta in scena la malattia e i cambiamenti nelle relazioni che essa porta con sé, argomenti spesso tabù e che rimangono nell’intimità famigliare. Da dove emerge la necessità di raccontarli in uno spettacolo teatrale?
«La volontà è stata quella di portare a teatro un tema di cui si parla ancora troppo poco e che riguardava da vicino sia me sia la drammaturga, anche se non c’è traccia del nostro dato autobiografico nello spettacolo. L’idea è nata dopo la lettura dello straordinario libro “I cura cari” (Einaudi, 2022), in cui Marco Annicchiarico racconta, in forma di diario, la sua esperienza con la madre malata di Alzheimer: per noi il lumicino che ci ha guidate nella tempesta della creazione collettiva».
Che elementi avete tratto da questa lettura?
«Quello che ne emerge è il fatto che nel momento in cui una malattia di questo tipo arriva all’interno di una famiglia, questa va in pezzi. Per il caregiver è molto complesso riuscire ad avere ancora un rapporto con il malato: la prima reazione ostinata è quella di cercare di riportarlo indietro, anche perché nel momento in cui si tratta di un genitore, il figlio si chiede “Adesso io chi sono? Come mi posiziono all’interno di questa relazione e ancor di più all’interno della mia esistenza?”. Il processo è, però, ovviamente impossibile. Ciò che è possibile è scivolare direttamente all’interno del mondo della persona che ha bisogno di aiuto e creare una nuova realtà di condivisione».
Nella pièce qual è il rapporto tra i concetti di dolore, memoria e bellezza?
«Cerchiamo di consegnare al pubblico una domanda presa in prestito da un fumetto di Giulia Scotti e che può essere applicata a tantissimi altri aspetti della vita, anche nel mondo difficile in cui viviamo oggi: “Il punto è trasformare il dolore in bellezza. Ci riusciremo ancora?”. Credo che il dolore sia un carburante necessario per riuscire a trasformare le relazioni e che, nello spettacolo, riusciamo a trasformare il dolore in bellezza perché attingiamo a una delle poche strade in cui una persona malata di Alzheimer e i figli si possono rincontrare: la possibilità di inventare insieme, attraverso il teatro, un nuovo mondo».
Nello spettacolo, difatti, c’è un elemento meta-teatrale: un collegamento con «Re Lear».
«Sì, la protagonista è un ex attrice e continua a raccontare ai figli l’ultimo grande momento della sua carriera ormai spenta. La memoria di questa donna lentamente si frantuma, ma l’unica scheggia che rimane viva è il monologo “Soffia, vento” del “Re Lear” di Shakespeare. Ne abbiamo tratto soprattutto il tema dell’eredità, perché è normale chiedersi cosa resterà ai figli dopo una malattia del genere, con la memoria che va in pezzi e la famiglia in cenere. E anche questa è una domanda aperta che lasciamo al pubblico. Tra l’altro, l’attrice che interpreta la protagonista, Giusi Merli, ha realmente interpretato “Re Lear” nella sua carriera e ci è quindi sembrata un’occasione, una memoria da non perdere».
Qual è il risultato dell’intreccio tra teatro e video?
«Il mio è un teatro che ogni volta si rigenera, ogni spettacolo è un nuovo capitolo della mia ricerca e spesso non ha niente a che fare con il precedente. Scelgo il linguaggio scenico partendo dalla storia che voglio raccontare. In questo caso, la scelta del video deriva puramente da esigenze drammaturgiche, perché volevamo raccontare anche il fatto che i caregiver di malati neurodegenerativi hanno talvolta la necessità di mettere in casa delle telecamere di videosorveglianza per controllare una persona anziana con problemi cognitivi. E anche da qui scaturisce una domanda: fino a che punto possiamo spingerci e siamo autorizzati a entrare nel mondo intimo di una donna, di una madre?».
Si tratta, questo, dell’ultimo capitolo della “Trilogia del vento”. Com’è andato il percorso?
«La ricerca, dal punto di vista tematico e di senso, è stata sempre molto chiara, perché nella trilogia ho preso in considerazione prima l’infanzia e l’incontro con i maestri, poi la maturità e il chiedersi se si può o no essere madri, e infine la vecchiaia, la perdita della memoria e la disgregazione della famiglia. Però, per ogni spettacolo è come se fossi partita da zero, cercando nuovi stimoli e linguaggi, per la costruzione della drammaturgia attraverso lavoro in scena, improvvisazione, ma anche interviste e lavoro sul campo. Lo spettacolo è l’ultima cosa, prima c’è un lavoro di ricerca di senso costante e da questo punto di vista è stato sicuramente molto impegnativo».