l'intervista
martedì 14 Ottobre, 2025
Matteo Trentin primo alla Parigi-Tours, centra la vittoria numero 32 in carriera: «Casagranda? Sono nato seguendo le sue orme»
di Angelo Zambotti
Il ciclista borghigiano, classe 1989: «Dei miei avversari del 2015 in pratica non c’è più nessuno, ma io continuo»

Non alzava le braccia al cielo dal 25 luglio 2024 Matteo Trentin, che domenica ha centrato la vittoria numero 32 della propria carriera salendo sul gradino più alto del podio della Parigi-Tours. Un anno e tre mesi fa si correva la quarta e penultima frazione del Tour de Wallonie, e il giorno successivo il valsuganotto sigillò anche il primato nella classifica finale della corsa a tappe belga. «Pochi giorni dopo – ricorda Trentin – venne a mancare mia nonna Rosaria, e da quel giorno non ho più vinto, almeno fino a domenica. Ecco perché la mia terza Parigi-Tours è dedicata a lei, oltre che a Stefano Casagranda». Domenica, il borghigiano della Tudor si è imposto in volata su Christophe Laporte (Visma) e sul giovane danese Albert Withen Philipsen (Lidl-Trek) al termine di una corsa di 211 chilometri vissuta prima su una fuga a sei, e poi su una serie di attacchi e contrattacchi, con i passaggi sullo sterrato a complicare ad accendere ulteriormente la bagarre. Nel finale Trentin ha gestito alla perfezione la volata, partendo da dietro e superando gli avversari con grande lucidità: tra i tanti a complimentarsi con uno dei corridori più esperti del gruppo, anche l’ex ct Davide Cassani, che ricordando i successi centrati insieme in azzurro ha poi sentenziato sui social: «Ci sono corridori che magari vanno più forte di Trentin ma come regista, come senso tattico, di corridori come lui ce ne sono pochi».
Trentin, certo ne sono cambiate di cose da 10 anni e 3 giorni fa, giorno del suo primo successo alla Parigi-Tours…
«Decisamente sì, e anche la corsa francese è cambiata. Nelle prime due edizioni che vinsi era ben più lunga (231 chilometri nel 2015 e 234 nel 2017, contro i 211 di domenica, ndr), anche se forse un po’ meno dura. C’era un circuito all’inizio, poi nel finale delle brevi salite, ma nel complesso me la ricordo più pianeggiante. Ora tra strappi e sterrato penso sia più dura, oltre che sicuramente più tecnica».
Sono cambiati anche gli avversari.
«Quello di sicuro, penso che ben pochi di quelli che c’erano nel 2015 corrano ancora. Se poi penso al podio di domenica, mi sento un po’ vecchio: il terzo, Albert Withen Philipsen, ha appena compiuto 19 anni, praticamente ha 16 anni in meno di me, quando io sono passato tra i professionisti non aveva nemmeno 5 anni!».
Ci sta dicendo che sta pensando alla pensione?
«Non se ne parla. Intanto anche per l’anno prossimo ho il contratto con la Tudor (team di Fabian Cancellara, ndr), poi si vedrà. E attenzione, perché il 2025 non è ancora finito».
Che programmi ha per i prossimi giorni?
«Mercoledì (domani, ndr) chiudo l’anno al Giro del Veneto. Corro quasi in casa, dai. Si parte da Vicenza e si arriva a Verona, chiudiamo con 5 giri del circuito dei Mondiali 1999 e 2004. Se vado a cercare il bis? Vediamo come si mette…».
A proposito di Mondiale, nel 2031 si correrà in Trentino.
«Mancano 6 anni quindi c’è tutto il tempo per preparare un grande evento. E sono sicuro che il nostro territorio si farà trovare prontissimo anche questa volta».
Peccato che quel giorno avrà già superato i 42 anni, sarebbe stato bello correrlo, no?
«Ho già avuto la fortuna di correre un Europeo in casa, non penso capiti a molti. Nel 2021 fu una grande emozione, vinse Sonny (Colbrelli, ndr) e io chiusi quarto, insomma una gran gara per tutta la Nazionale. Certe cose non si possono certo programmare, quindi va benone così».
In questi sei anni crescerà un italiano in grado di inserirsi nella lotta per la maglia iridata, o bisognerà rassegnarsi nel vedere sempre gli altri giocarsi la vittoria?
«Il nome sulla bocca di tutto è quello del ligure Lorenzo Finn: ha vinto il mondiale junior un anno fa, quest’anno si è ripetuto tra gli under 23, quindi nelle prossime stagioni dovrà fare i conti con un po’ di pressione, spero per lui che riesca a gestire tutto al meglio. Però io faccio anche il nome del nostro Edoardo Zambanini: sta andando sempre più forte, è del 2001, quindi sono convinto che potrà esserci anche lui tra i protagonisti del Mondiale di Trento. Certo, un po’ dipenderà dal tracciato, anche se non penso ci si discosterà molto da quello degli Europei, seppur adeguando il chilometraggio. Tutti questi discorsi, comunque, hanno valore fino a un certo punto, in sei anni possono succederne di cose…».
Torniamo alla vittoria di domenica, e alle dediche.
«L’anno scorso dopo il Vallonia è morta mia nonna Rosaria, aspettavo da mesi di dedicarle una vittoria, ci tenevo tanto. Poi ovviamente un grande pensiero va a Stefano Casagranda: posso dire che ciclisticamente sono nato seguendo le sue gesta, ero un bambino quando lui era un professionista. Sono passati tanti anni ma ricordo come fosse ieri quando noi giovanissimi ci stavamo allenando, o meglio stavamo girando in bici, al centro sportivo di Borgo e arrivarono Stefano e Paolo Voltolini, uno in maglia Mg Technogym e uno in maglia Ros Mary, e fecero un paio di giri con noi: avevo 8 anni e mi sembravano due “giganti”, non mi rendevo pienamente conto chi stava pedalando coi giovanissimi. Sono sicuro che Stefano da lassù un sorriso lo ha fatto domenica, ha lasciato tanti bei ricordi, ha fatto davvero tanto per il paese e per il nostro Veloce Club Borgo. Ci manca già».
Quel giorno del 1997 certo non pensava di diventare professionista anche lei.
«Probabilmente a quei tempi nemmeno sapevo cosa fosse un ciclista professionista, non sapevo che c’era gente che andava in bici per lavoro… ero un bimbo che amava pedalare e divertirsi, nulla più!».
Quando si è reso conto quindi che quella grande passione poteva diventare la sua vita?
«Nelle stagioni da dilettante. Fino a quando ero uno junior, vivevo coi miei quindi tutto era facile. Poi sono andato a Verona a studiare (Matteo si è laureato in Scienze Motorie nel 2015, ndr) e sono cambiate tante cose. Ho puntato molto sul ciclismo, ma nel contempo volevo costruirmi un “piano B” qualora non fossi diventato professionista. A metà 2011 poi il salto è arrivato sul serio».
Cos’è cambiato da allora nel ciclismo?
«Praticamente tutto: basta prendere una bicicletta e un casco del 2011 e metterli a fianco di quelli del 2025 per capire tante cose. Però oggi come allora vince chi va più forte. Forse negli ultimi anni è sempre più difficile vincere, però, c’è meno attendismo e se non si parte tra i big le speranze sono sempre meno».
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