L'intervista

giovedì 5 Giugno, 2025

Matteo Peroni, l’influencer che racconta la «vera montagna»: «L’overtourism è un problema, non bastano 30 secondi per capire un posto»

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Ingegnere informatico, 36 anni. «Non sempre è colpa dei social: il lago di Braies si è riempito grazie alla tv»

«È giusto che attraverso i social si racconti la propria esperienza in modo autentico senza però strumentalizzare la montagna». Queste le parole di Matteo Peroni, classe 1989. Ingegnere informatico, ma anche content creator. Il giovane, racconta le sue avventure in montagna a 41.200 iscritti su YouTube e 17,2mila follower su Instagram con sensibilità e rispetto dell’ambiente.

 

Rispetto al passato, com’è cambiato il suo modo di vivere la montagna?
«In ogni percorso di frequentazione della montagna c’è un’evoluzione che vale per tutti. Il mio modo di vivere la montagna è passato dal fare qualcosa che fosse nelle mie corde a obiettivi che mi spingessero un pochino più in là, per ottenere gratificazioni personali a livello fisico e a livello di quello che vedevano gli occhi».

 

Cosa ne pensa dell’influenza che i social stanno avendo sul turismo montano?
«A me generalmente piace andare in montagna per isolarmi dalla gente, perciò lungi da me scegliere mete popolari. Credo che la soluzione per l’overturism sarebbe non pubblicare più niente, ma se non lo faccio io, ce ne sono altri duemila pronti a farlo. Ci sono dei luoghi che tendo a raccontare senza entrare troppo nello specifico. Se lo spettatore è interessato a essere intrattenuto guarda il video e non capisce bene dove mi trovo, se invece una persona è interessata ad approfondire chiede oppure identifica autonomamente il luogo tramite una ricerca per immagini. Vedo che ci sono tante realtà in cui si sfrutta la montagna per notorietà. Ho tanti colleghi che la utilizzano proprio per autocelebrare se stessi. Trovano lo scatto perfetto all’alba o il tramonto ripreso in un certo modo, la frase giusta da postare su Instagram in modo che il video diventi virale. Ecco, questo approccio non mi piace e non lo utilizzo. Ci tengo a sensibilizzare sul fatto che i bivacchi vadano lasciati puliti e che se una cosa è difficile è meglio farla con qualcun altro. È giusto che attraverso i social si racconti la propria esperienza in modo autentico, senza però strumentalizzare la montagna».

 

La montagna si è trasformata in «un prodotto da vedere» più che un’esperienza da vivere e condividere?
«Purtroppo sì. Tutti i reel che vedo in cui si spettacolarizza un luogo in trenta secondi per creare connessioni di nuove persone, si costruiscono frasi in cui si cerca l’interazione con la gente sono esibizioni della montagna per un proprio tornaconto personale. D’altro canto però, se viene scritto un libro o girato un film in cui si mostrano dei luoghi specifici, tutto quello che passa dai media e viene mostrato come bello, inevitabilmente attira la gente. Secondo me è sbagliato dare la colpa unicamente ai social per questo tipo di approccio alla montagna. Il Lago di Braies, ad esempio, è diventato famoso grazie alla serie tv e in quel caso è difficile dare la colpa a qualcuno. Per quanto riguarda i social invece, dietro ci sono delle persone comuni che in qualche modo guadagnano tramite quello che pubblicano, quindi è più facile attaccarli. Non attaccheresti mai un attore, un creator invece sì».

 

Un coordinamento tra chi parla di montagna online e le comunità locali su come promuovere un luogo potrebbe essere uno strumento utile?
«Sì. Io mi faccio molti riguardi, perché mi rendo conto di aver raggiunto un determinato seguito e non posso più ignorarlo. Prima di pubblicare dei contenuti mi è capitato di contattare il Cai per assicurarmi di non arrecare dei danni. Non so in quanti lo facciano però. Se ci fosse più sensibilità nella scelta di cosa mostrare e non mostrare, probabilmente tutte queste dita puntate non ci sarebbero».

 

Sarebbe utile introdurre un sistema di prenotazione per accedere ai bivacchi?
«Assolutamente no. Secondo me sono strutture d’emergenza, adibite per chi è in difficoltà e ha bisogno di un riparo. Sono stato in 121 bivacchi e solo due volte mi è capitato di utilizzarli per reale necessità. Non si può pensare a un sistema di prenotazione, perché qualora dovessero servire per un’emergenza non si potrebbe negare l’accesso a chi ne ha bisogno. Se scelgo il bivacco come luogo in cui dormire, ma arriva qualcuno che ha più priorità di me nell’usarlo, io gli cedo il posto. Nessuno mette mai in conto il fatto che possano esserci altre persone, che il bivacco possa essere pieno e si debba avere un piano B. Il buonsenso dipende davvero dai social o è una questione di educazione ricevuta in passato?».

 

Cosa le ha insegnato la montagna finora e cosa le può ancora insegnare?
«Mi ha insegnato sicuramente che non bisogna mai andare oltre le proprie capacità, perché altrimenti la paghi cara e io l’ho capito sulla mia pelle. Ci sta alzare l’asticella, ma con la testa. Mai fare più di quello che potremmo essere in grado di fare è la cosa più importante. Mi ha insegnato anche che non tutti quelli che frequentano la montagna sono come te e la vivano come te, però non sempre è così. Quello che penso mi potrebbe insegnare è che a volte sarebbe bene che tutti lasciassimo le telecamere a casa».