L'intervista

sabato 1 Luglio, 2023

Lorenzo Pregliasco e il Paese che siamo: «L’attivismo sui social senza politica è vuoto»

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L'analista politico ospite di Trentino 2060 racconta l'Italia dalla prima Repubblica alla politica on demand

Analista politico ed esperto di comunicazione politica, cofondatore di Quorum e YouTrend e voce, insieme a Lorenzo Baravalle, del podcast «Qui si fa l’Italia», Lorenzo Pregliasco interviene oggi alle 18:30 al Festival Trentino 2060, in piazza Degasperi a Borgo Valsugana. La presentazione del suo ultimo libro «Il paese che siamo. L’Italia dalla prima Repubblica alla politica on demand» (Mondadori, 2023), sarà l’occasione per parlare del futuro dell’Italia attraverso la riscoperta delle affinità con le grandi trasformazioni della politica del passato.
Quali sono tre momenti trasformativi che raccontano come l’Italia è diventata il Paese che è oggi?
«Ce ne sarebbero tante perché ogni stagione ha lasciato una traccia. Il libro ragiona per decenni par-tendo dal 1946. Avremmo la ricostruzione 1946-1948, con la nascita della costituzione. Un secondo gli anni ’70, che si compone di episodi di conflitto e di violenza, legata alle violenze degli anni di piombo, ma anche di conquiste legate ai diritti. Come terza tappa potremmo mettere la stagione in cui crolla il sistema della prima repubblica, le inchieste abbattono il sistema dei partiti e cresce l’antipolitica».
Dagli anni ’70, e poi più marcatamente dagli anni ’90, fino alla debacle del 2000, la partecipazione ha cominciato a calare. Sia alle elezioni, che ai referendum. Oggi la sensazione è che questo trascinamento sia più sui social che alle urne. Almeno su certi temi, però, le corde dell’attivazione delle forze civiche vibrano. Dai diritti civili a quelli ambientali. Come spieghi questa antinomia?
«Nell’ultimo capitolo provo a spiegare che il calo della partecipazione tradizionale – che passa attraverso il voto, la militanza politica e l’affiliazione ai partiti – non è legata al disinteresse dei giovani, ma al fatto che la partecipazione esiste in modo diversi. Basti pensare a quello che rappresentano i social e gli strumenti digitali. Si scelgono spazi trasversali e l’interesse è molto più tematizzato. Il problema è che non bastano le petizioni, le prese di posizione degli influencer, se non c’è la traduzione in legge del cambiamento. Guardando indietro, al fermento che tra fine anni ‘60 e ‘80 portò l’Italia a una serie di trasformazioni – dal divorzio, all’aborto allo statuto dei lavoratori – vediamo che quella stagione è stata possibile grazie al fermento nella società, certo. Ma soprattutto grazie al fatto che il fermento fu raccolto dalle istituzioni. Oggi il problema è che manca la saldatura tra movimenti e istituzioni. Basti pensare a quanto accaduto con il Ddl Zan».
Il 1992-1993 è stato quello delle indagini di Tangentopoli, delle stragi mafiose, della crisi dei partiti e delle sfide economiche. In politica, la risposta è stata il «nuovismo». Come ci siamo arrivati e che eredità lascia oggi?
«Il concetto di nuovismo indica la tendenza ad appoggiare qualunque tipo di novità. Oggi ci ritroviamo abbastanza in quei toni e in quella parola chiave. Siamo sempre in cerca di qualcosa di nuovo, quasi come se questa caratteristica fosse cifra di qualità del personale politico. Furono la crisi dei partiti e, non da ultima, l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci a portare questo cambiamento. Nello spazio vuoto che si era creato, si inserì Berlusconi con un partito nuovo. Anche se lo fece portando con sé una parte dell’élite già esistente».
Che cosa hanno in comune Forza Italia e il Movimento 5 stelle?
«Forza Italia e il Movimento 5 stelle sono le due grandi trasformazioni politiche degli ultimi trent’anni. Il partito di Berlusconi è un esperimento molto più rapido, che nel giro di tre mesi si presenta alle elezioni. Il M5s è un’esperienza di più di lunga gestazione. Dall’embrione del primo Vaffa Day, nel 2007, al debutto nelle elezioni politiche, nel 2013. In comune hanno la capacità di disarticolare il sistema politico con un’offerta nuova e non incasellabile».
L’ultima tornata elettorale riporta a schemi più certi?
«È un esito certamente più lineare. Anche se il risultato delle politiche sconta un allontanamento dal voto di un 10% in più degli aventi diritto. Il risultato è poi figlio di un’evoluzione: FdI non è mai stato un soggetto egemone del centrodestra, e invece qui lo diventa. C’è un M5s che viene fortemente ridimensionato rispetto al 2018, ma resta comunque essenziale per rendere il centrosinistra competitivo».
Come si è ritrovata l’Italia a svoltare a destra?
«Un pezzo della fortuna di Giorgia Meloni si deve all’essere riuscita a incarnare un’alternativa rispetto a chi ha governato il Paese negli ultimi dieci anni. Guardando alle elezioni politiche degli ultimi 30 anni, l’inerzia va a destra. Anche se quella di oggi è una destra diversa, più identitaria. Nella seconda repubblica, 2001, 2008 e 2022 hanno visto grandi affermazioni del centrodestra, nel 1994 vinse il centrodestra berlusconiano. Gli unici due casi in cui il centrosinistra riesce ad andare al governo sono atipici: nel 1996 la lega corse da sola, nel 2006 di fatto c’è un pareggio, con 20 mila voti di scarto, e nel 2013 c’è un nuovo pareggio che porta a un governo di larghe intese. Anche nel voto amministrativo vale lo stesso. La vittoria del centrosinistra nelle grandi città alimenta la percezione che lo schieramento sia più forte nei comuni. Ma l’Italia resta un Paese di piccole provincie».
Dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi quale sarà il destino di Forza Italia?
«Guardando al futuro, la scomparsa di Berlusconi per Forza Italia è una pagina complessa, perché è un partito personalistico. Il tentativo è sopravvivere alle elezioni europee. Ma farà fatica a sopravvivere nell’attuale forma. Però il centrodestra rimarrà un’area socialmente e politicamente compatta. Molti fanno un paragone con le europee del Pci dopo la scomparsa di Berlinguer (nel 1984 il Partito Comunista riuscì a scavalcare la Democrazia Cristiana, ndr). Io sono scettico. Abbiamo già visto attenuarsi l’effetto della scomparsa sui sondaggi. E il voto è tra un anno».
Lei si occupa anche di campagne elettorali. Che impatto avrà in politica la variabile rappresentata dalla deepfake (la tecnica per la sintesi dell’immagine umana basata sull’intelligenza artificiale, ndr)?
«L’intelligenza artificiale generativa, con la possibilità di generare contenuti multimediali falsi ma accurati, è un elemento nuovo e potente che potrebbe rafforzare fenomeni di manipolazione e disinformazione. Temo soprattutto la declinazione sul video. Si introdurrà come variabile problematica nel dibattito pubblico».
Spesso si parla di politica dei social, per indicare l’influenza dei media digitali sull’agenda politica. Anche i sondaggi, al di là del loro utilizzo analitico, possono diventare uno strumento nelle mani dei leader?
«È uno strumento conoscitivo e molto prezioso. Ci consente di andare al di là delle bolle e dei preconcetti e di ascoltare tutti. Il rovescio della medaglia è proprio il fatto che possono diventare un oggetto di comunicazione, un grimaldello per incidere sull’agenda pubblica e da utilizzare come vantaggio competitivo. Questo va monitorato»